Sacile
Marilena Parro Marconi
Marilena Parro Marconi è nata e vive a Sacile (PN). Laureatasi in Lettere Classiche presso l’Università di Padova, già insegnante in varie scuole della provincia di Pordenone e per molti anni nella Scuola secondaria di primo grado “Balliana – Nievo” di Sacile, fa attualmente parte del gruppo culturale “il battito” e del “Circolo della Cultura del Bello” – Sacile.
Troviamo alcuni dei suoi scritti in diverse pubblicazioni ed antologie.
Ha pubblicato tre opere di narrativa di ispirazione autobiografica e biografica: “I fiori della vita”, Ed. Publimedia, 2016, la sua opera prima, che ripercorre il periodo della sua infanzia e giovinezza, dagli anni ’50 agli anni ’70, facendo rivivere anche la Sacile di quel tempo; “L’angolo della storia”, Aletti Editore, 2017, un racconto che rappresenta la continuazione dell’opera precedente “I fiori della vita”.
“Nel secondo libro “L’angolo della storia”, - rileva la scrittrice Titti Burigana nella sua Introduzione all’opera- avevamo lasciato il marito Dino Marconi in missioni internazionali di pace nei Paesi dell’Est Europa e dell’Asia Centrale, come ispettore dell’OSCE: adulto maturo, con importanti e pesanti responsabilità.
In questa nuova opera “Lo spirito del “Pratino”, Ed. Publimedia, 2018 della stessa autrice, lo troviamo ad Acquapendente, ragazzo spensierato e a volte anche audace assieme ai vivaci compagni di avventure: gli amici del “Pratino”, un luogo fiabesco del viterbese. L’opera ha ottenuto “Diploma d’Onore con Menzione d’Encomio” al Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 4^ Edizione, Forte dei Marmi, 2018 e “Attestato di Segnalazione” al Premio Culturale Nazionale “San Bernardino alle ossa – La Milano gotica”, 2018.
L’autrice ha alle spalle già diverse pubblicazioni di raccolte poetiche, attività letteraria che le ha fruttato significativi riconoscimenti: la silloge “La voce dell’animo”, Aletti Ed., 2016, nel volume “Marino”, Aletti Ed., 2016, che è risultata finalista al 2^ Premio Letterario Internazionale “Salvatore Quasimodo”; la silloge “I colori della vita” nel volume “La poesia è un’eco, che chiede all’ombra di ballare”, Aletti Ed., 2017, che ha ottenuto Menzione di Merito al 3^ “Premio Internazionale Salvatore Quasimodo”, 2017 e Diploma d’onore con Menzione d’Encomio al Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” di Seravezza, 3^ Edizione 2017.
La silloge “La magia del cuore”, Intermedia Edizioni, 2018, ha ottenuto Segnalazione Speciale della Giuria al Premio Letterario Nazionale “Scriviamo Insieme” VII Edizione 2017, con la seguente motivazione: “L’autrice ci offre uno scrigno di versi di rara intensità, quasi uno spaccato del suo essere. Emerge una ricerca di interiorità racchiusa in un pregevole intreccio di raffigurazioni, di temi, di musicalità e di stringente coinvolgimento”. La stessa silloge è risultata finalista al Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Città di Latina”, 4^ Edizione 2018 ed ha ottenuto Attestato di Segnalazione al premio Culturale Nazionale “Unicamilano 2018”.
L’autrice ha ottenuto premi anche con poesie singole: Menzione di Merito al premio letterario nazionale di poesia “Città di Conegliano”, IV Edizione – 2016, con la poesia “Le evocazioni del silenzio”, Conegliano (TV), 2016; Diploma d’Onore con Menzione d’Encomio al Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti”, 2^ Edizione, Seravezza, 2016 con la poesia “Il canto delle cicale”; con la poesia “Un ventaglio aperto” ha ottenuto Diploma d’Onore con Menzione di Merito al Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti”, 3^ Edizione, Seravezza 2017; è stata selezionata e inserita nell’Antologia Artistica “d’inchiostri, Amore e altre storie” …” alla 3^ Edizione Premio Nazionale d’Arte per Poesia, Vernacolo, Haiku, Fotografia e Pittura “La couleur d’un poème”, Milano 2018; è risultata finalista al Concorso ”Il Giro d’Italia delle Poesie in cornice 2019”, XXVI Edizione. Con la poesia inedita “Scia di stelle” ha ottenuto Menzione speciale al Premio CET Scuola Autori di Mogol, 2018; Segnalazione Speciale della Giuria” con Attestato di Merito alla VI Ed. Premio Letterario Nazionale “Teatro Aurelio”, Roma 2019: terza classificata al Premio Culturale Nazionale “San Bernardino alle Ossa” – La Milano gotica” I^ Edizione 2018 e finalista al Premio Nazionale “Argentario”, 2019.
La poesia “Solo un pensiero smarrito” al “Concorso di poesia sulla mamma” è stata selezionata per la pubblicazione nella rivista “Poeti e Poesia”, Casa Editrice Pagine, nell’annualità del 2019.
L’autrice ha ricevuto il Diploma di Onore e il Diploma di Merito per la sezione poesia haiku alla 4^ Edizione del Bando Letterario Internazionale Poesia, Narrativa e Saggistica Veretum, Patù (LE), 2019; è risultata finalista alla 9^ Edizione del Premio letterario “La Rosa d’Oro”, Torre Alfina (VT) con la poesia inedita “Ombre”. Alcune sue opere nelle sezioni poesia e haiku sono state selezionate e inserite nell’Antologia Artistica “Di tutto quel rosa che…” alla 4^ Edizione Premio Nazionale d’Arte per Poesia, Vernacolo, Haiku, Fotografia e Pittura “La couleur d’un poème”, Milano 2019.
L’autrice è stata inoltre premiata con sillogi e racconti inediti: con il racconto “All’ombra della betulla” ha ricevuto: “Diploma d’Onore con Menzione d’Encomio al Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 4^ Ed. 2018; il “Premio Critica” al Premio Lett. Naz. “Memorial Vallavanti Rondoni”, VI Ed. Caorso (PC), 2019, con la seguente motivazione della Giuria: “Questa creazione presenta, con ritmo placido, dolce ma estremamente puntuale, la condizione di una famiglia contadina del primo dopoguerra: tempi duri per tutti. Chi racconta è ormai una giovane donna, avvezza fin da bambina ai disagi di un mondo ruvido, ostico dove le gioie sono rare e la vergogna profonda. E’ una storia semplice, almeno apparentemente: la crescita, la fatica, la perdita, l’amore, il rinvio, la maternità, la tenerezza. Proprio questa spontanea sobrietà della narrazione crea l’attrattiva del racconto e suscita sincere emozioni”.
Ha vinto la VII Ed. Premio Letteratura Italiana Contemporanea, Roma 2019, con la raccolta “Fiabe alla finestra”, il racconto “All’ombra della betulla”, presente nell’antologia “I Cigni” e la fiaba “La storia della Magretta”, presente nell’antologia “Il muro possibile”, Laura Capone Editore.
La silloge inedita “Fra luci e ombre” è risultata opera “Segnalata dalla Giuria” con Attestato di merito e proposta di pubblicazione al “Premio Ebook in…versi” IV Edizione, Melegnano (MI), con la seguente motivazione: “Nella silloge, “fra luci e ombre”, l’animo di Marilena Parro Marconi si apre alla vita, tra gioia e dolore, speranza ed illusione, proteso a ricercare il sentire profondo dell’anima, gli “slanci” dell’infinito amore e le intense emozioni che emergono dal mondo della memoria.
Nel flusso esistenziale, che riconduce alla “magia della vita”, tutto sorprende nonostante lo “sbiadire del tempo”: dai nuovi entusiasmi, fino alle più labili percezioni, la “tenerezza del cuore” e la capacità di riconoscere la “voce dell’anima”.
La sua Parola è vibrante e s’irradia di luce lirica, illumina il “miracolo dell’amore” ed è sempre pronta a ritrovar la forza di “librarsi in volo sulle ali variopinte dell’anima”. Massimo Barile;
Seconda classificata al Premio Internazionale “Città di Castrovillari” Poesia, Prosa, Arti figurative e Teatro, (CS), 2019, con la silloge “Dialogo con la vita” con la seguente motivazione della Giuria: “Una raccolta condotta con garbo intellettuale e semplicità, resa con la delicatezza resiliente di una sensibilità femminile contraddistinta dal delicato stupore di un cuore colmo d’amore e bellezza”.
Contatto: Marilena Parro Marconi
L’ANGOLO LETTERARIO DEI SOCI
Racconti e poesie
DA “ALL’OMBRA DELLA BETULLA”,
pubblicato nell’Antologia “I cigni”, Laura Capone Editore
ALL’OMBRA DELLA BETULLA
Seduta in giardino, all’ombra della betulla, Cloe amava godersi il fresco verso l’ora del tramonto, che concludeva quelle lunghe, assolate giornate estive. Una brezza leggera, proveniente dal mare, rinfrescava l’aria della collina e lei, socchiudendo gli occhi, si abbandonava dolcemente ai ricordi…
La sua vita non era stata certamente facile, sembrava un romanzo…quante emozioni, avventure, sofferenze aveva vissuto, ma, al tempo stesso, quanto amore aveva riscaldato il suo cuore, donandole sempre il sorriso nel guardare al domani…
E si rivedeva bambina… una brunetta dagli occhi verdi. I suoi lunghi capelli ricci formavano una folta chioma ribelle, che contrastava con l’esilità della figura, ma non aveva tempo per specchiarsi né per giocare quanto avrebbe desiderato.
La sua infanzia si era conclusa anzitempo con la prematura perdita della madre, che aveva mutato bruscamente la sua vita. Solo l’anno prima suo padre era tornato dal fronte e l’anno dopo sua madre era morta di parto, lasciando tre figli ancora in tenera età; il più grandicello aveva appena undici anni.
Lei era l’unica figlia, il fratello maggiore già lavorava in campagna col babbo. Perciò, aveva dovuto lasciare la scuola, al termine della terza elementare, assumendo il ruolo di “donnina” di casa, responsabile di tutti i faticosi lavori domestici e della cura del fratellino, nonostante fosse ancora una bambina…
DA “I FIORI DELLA VITA”
CAPITOLO I
MI RIVEDO IN FILA…
Mi rivedo in fila, insieme con le mie nuove compagne di prima elementare, in attesa di entrare in classe, sfilando davanti alla maestra. Quel cerimoniale era, per me, del tutto inusitato; mai, alla scuola materna, che io avevo frequentato per ben quattro anni, avevo assistito ad una scena simile.
Bisognava salutare l’insegnante con una lieve inclinatura del capo, pronunciando la formula: “Riverisco, signora maestra”; ma quel che più mi colpiva era la classe vicina alla nostra, in fila sulla sinistra. Le alunne, ad una ad una, salutavano la maestra con la stessa frase, accompagnata, però, da un inchino.
Di tanto in tanto, osservavo, in silenzio, un po’ intimidita, completamente assorta, le mattonelle rosse di cotto, tirate a lucido e le porte delle aule di legno verniciato, di colore azzurro, aperte davanti all’occhio luminoso, da cui giungevano spiragli di luce dorata nella penombra degli ampi e freschi corridoi che ci avvolgevano…
Sarebbe iniziata una nuova avventura: nuova scuola e nuova casa. Ci eravamo, infatti, trasferiti dall’abitazione in via Cavour in un nuovo appartamento in piazza del Popolo, sopra la “Banca Cattolica”, in cui lavorava, come impiegato cassiere, il mio papà.
Ero sempre abbastanza vicina alla scuola, ma prima era stata tutta un’altra cosa.
DAL CAPITOLO IX
I RACCONTI DELLA MAMMA E DELLA NONNA
La mamma mi raccontava spesso dei tempi della sua infanzia e della sua giovinezza, episodi della sua vita e della storia della sua famiglia…
Il nonno Erminio, negli anni della sua giovinezza, aveva vissuto la terribile esperienza della Prima Guerra Mondiale. Era stato, per ben quattro anni, artigliere alpino, quindi in montagna, dove la vita in trincea era particolarmente dura, anche per le difficili condizioni ambientali. Fortunatamente, si sera salvato.
Trascorsi alcuni anni sereni di matrimonio, già allietato dalla nascita di due figli, e dall’attesa del terzo, il nonno si era visto costretto ad emigrare…
Quante traversie dovettero affrontare…Sfumò anche il loro viaggio di nozze a Venezia, tanto desiderato dalla nonna…
Era, fortunatamente, rimasta la terra, ciò che, per il nonno, ed anche secondo la mentalità paesana dell’epoca, veramente contava, su cui si basava la solidità economica di una famiglia, in quanto bene fruttifero e durevole, fonte di reddito abbastanza sicuro, salvo calamità naturali. A quell’epoca, si viveva del raccolto agricolo. Su tutto prevaleva la concretezza, di cui la terra rappresentava la testimonianza più evidente; la proprietà terriera consisteva in un possesso materiale, visibile, indiscutibile. Pertanto, chi ne era privo era guardato con diffidenza, anche se il motivo poteva essere plausibile: l’esercizio di un’attività artigianale, artistico- professionale
La “tiara” era il bene più prezioso, più importante, imprescindibile, in quell’ambiente rurale, spesso avaro di risorse, popolato da gente semplice, ma laboriosa e tenace; era la depositaria dei principi, delle idee e delle convinzioni sui quali la società contadina fondava la propria concezione della vita. A dimostrazione di quanto fosse radicato tale valore culturale, all’ingresso del paese, si può ancor oggi leggere, dipinto sulla facciata di una casa, il motto ciceroniano:” Nihil agricultura melius”…
La vita contadina era, dunque, basata su un’economia di sussistenza, finalizzata all’autoconsumo e, naturalmente, improntata alla parsimonia. Nulla veniva sprecato, perfino la lanuggine raschiata dai bozzoli serviva, insieme alle piume d’oca, per l’imbottitura dei cuscini.
La mamma ricordava, poi, che, nonostante il loro significativo contributo nel lavoro domestico ed agricolo, in quanto aiutavano costantemente i grandi nelle varie attività, i bambini e i ragazzi ricevevano un magro compenso.
Le ragazze erano addestrate fin da piccole a svolgere tutte le faccende domestiche, compresi i lavori di cucito e di maglieria, e ad accudire i fratellini.
La mamma, infatti, mi raccontava che si era amorevolmente presa cura della sorella minore Flora, che aveva dodici anni di meno.
Gli anni della sua gioventù coincisero, purtroppo, con quelli della Seconda Guerra Mondiale. Erano tempi difficili, in cui le famiglie contadine vivevano, oltre che in ristrettezze, anche nella paura continua, soprattutto dopo l’otto settembre 1943. Era iniziata, infatti, anche la guerra civile, che coinvolgeva, inevitabilmente, la popolazione, tutti gli abitanti del paese.
Si temevano i rastrellamenti tedeschi, i furti di eventuali biciclette, raro e prezioso veicolo, utilissimo, per gli spostamenti, relativi a lunghi tragitti, o di generi alimentari, delazioni, vendette…
La nonna, poi, ricordava pure la Prima Guerra Mondiale, quando, ancora bambina, aveva assistito alla razzia degli austriaci, nella fattoria della sua famiglia: avevano portato via anche la tacchina che covava le uova…
Si viveva in un clima di costante tensione…La storia, purtroppo, si ripeteva, in modo ancora più drammatico, a causa dell’orrore della guerra civile, foriera di un clima di sospetto persino fra compaesani e di strascichi di rancori e di odio, per motivi politici, anche dopo la conclusione del conflitto.
Per un breve periodo, i nonni furono costretti ad ospitare un ufficiale tedesco, una persona molto educata e colta, raccontava la mamma, che era rimasta colpita dal singolare fatto che egli aveva scritto una lettera alla sorella, in latino.
Era risaputo, in paese, che, fuori dell’abitato, nella grava, si svolgevano esecuzioni, atti di violenza e di crudeltà…E lo spargimento di sangue, secondo la mamma, che, con sguardo attento, vedeva passare, all’andata ed al ritorno, quegli strani cortei, lasciava il segno sul volto degli esecutori di tali misfatti: gli occhi apparivano dilatati e la fisionomia alterata, non sembravano più gli stessi, qualcosa di terribile li aveva trasformati.
Ero ancora molto giovane, quando la mamma mi raccontava, con grande efficacia, quegli eventi, erano i primi anni Sessanta e i suoi ricordi della guerra erano ancora assai vivi, in fondo, non erano trascorsi molti anni dal termine del conflitto; col passare del tempo, essi si affievolirono e la mamma cominciò a parlarne sempre di meno,
DAL CAPITOLO XIX
I RACCONTI DI CLOE
Mi ritornarono alla mente gli episodi della sua vita, che essa mi aveva raccontato, nelle tranquille serate estive, durante i periodi di soggiorno a casa sua, nei primi anni di fidanzamento…
In gioventù, aveva sofferto molto, per la perdita del fratello minore Dino, artigliere alpino, morto a soli ventitré anni, a causa di un tragico incidente…
Nel 1940, si doveva finalmente sposare con il suo fidanzato Marino. Le nozze erano fissate per il 10 giugno, ma, com’è noto, Mussolini aveva deciso che quel giorno l’Italia sarebbe entrata in guerra. Marino, dieci giorni prima, era stato richiamato e aveva raggiunto Torino, in previsione dell’attacco alla Francia.
Così le nozze furono celebrate, frettolosamente, nell’ottobre successivo, approfittando di una breve licenza dello sposo.
L’anno seguente, Cloe si trasferì a Terni con il marito, che aveva ottenuto il congedo provvisorio, essendo orfano di padre, morto poco tempo dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, in seguito alle ferite riportate ed alle malattie contratte. Egli era stato assunto, come autista, presso le nuove acciaierie, lei, invece, preparava i pasti, per un gruppo di ingegneri.
Nel 1943, il marito venne richiamato e lei tornò al paese natale, Proceno, piccolo centro situato sulla cima di un colle, a cavallo fra Lazio e Toscana, dove ancora viveva il padre.
All’improvviso , l’incantevole, suggestiva bellezza di quegli ameni paesaggi collinari, disseminati , da secoli, di tranquilli borghi medievali, arroccati sulle cime dei poggi o abbarbicati lungo i loro dolci pendii, chiazze grigiastre armonizzate tra il verde, segno di una presenza umana, integrata nella natura, di una vita scandita da ritmi antichi, il fascino struggente di quei tramonti infuocati , in cui l’apparente incendio del cielo sembra abbracciare la terra, vennero fatalmente offuscati dalla brutalità della guerra.
I devastanti effetti del conflitto ricaddero, infatti, anche sulla popolazione civile.
Dopo la liberazione di Roma, avvenuta il quattro giugno del 1944, il fronte si spostò più a nord, verso la linea gotica. Si svolsero aspri combattimenti fra le retroguardie tedesche e le avanguardie degli alleati; furono effettuati pure diversi, devastanti, bombardamenti, che presero di mira l’antico ponte gregoriano, sul fiume Paglia, a valle dell’abitato di Proceno, ed altri ponti su alcuni torrenti, tra i quali quello vicino all’antica Cattedrale romanica del S. Sepolcro di Acquapendente.
Essa venne gravemente danneggiata dal bombardamento dell’8 giugno 1944 e, dopo la guerra, fedelmente ricostruita, secondo la pianta originaria…
DA “L’ANGOLO DELLA STORIA”, Aletti Editore 2017
DAL CAPITOLO XIV
VIAGGI PARTICOLARI
Dino, nel 1992, lasciato il Reparto operativo, fu trasferito in un alto Comando…
Da lì iniziò la sua avventura, come esperto e ispettore di tali Trattati internazionali.
Dal luglio di quell’anno, i Trattati entrarono nella fase attiva e iniziò lo scambio di visite tra Delegazioni militari dei Paesi della NATO e quelle dei Paesi dell’ormai ex Patto di Varsavia.
Negli anni seguenti, tale incarico lo portò ad effettuare numerose visite e ispezioni nei Paesi dell’Europa dell’Est, del Caucaso e dell’Asia centrale.
Ognuna di quelle missioni era particolarmente impegnativa, poiché si svolgeva in un brevissimo arco di tempo, circa una settimana, nella quale si dovevano visitare installazioni militari negli angoli più remoti dei Paesi suddetti.
Tali attività, protrattesi sino al suo congedo, si rivelarono estremamente interessanti, per la possibilità di conoscere da vicino anche l’ambiente sociale, gli usi e costumi, l’arte, la cultura dei Paesi visitati.
Ci vorrebbe un intero libro, per raccontare tutto, ma, in particolare, gli sono rimasti impressi alcuni episodi significativi e, nel contempo, emozionanti, per gli avventurosi risvolti…
…in una delle sue missioni in Polonia, alloggiò in un palazzo, chiamato dai suoi ospiti castello, situato sulle rive di un lago e circondato da un grande parco, che confinava con il poligono militare.
Nelle vicinanze, sorgeva un villaggio, una tranquilla località, immersa nel verde. Nel lago, nuotavano dei cigni. Le sorprese, tuttavia, non erano finite. La mattina, aprendo la finestra, si presentò davanti ai suoi occhi una scena inaspettata ed alquanto insolita, in base alla sua esperienza.
In cima ad un palo, notò, con stupore, un grande nido di cicogne, che accoglieva un cicognino con la madre. In quel momento, provò un senso di tenerezza che gli richiamò alla mente la sua infanzia, sorrise, per la sua ingenuità di allora; a quel tempo, infatti, le madri, fra cui anche la sua, per spiegare ai propri figli la nascita di un bambino, dicevano: “E’ arrivata la cicogna!”. E’ la favolistica nordica che attribuisce alla cicogna il compito di portare i pargoli agli sposi. Tale uccello, infatti, nidifica su alberi e rocce e, nei Paesi nordici, anche sui tetti.
Non c’era nulla di strano, dunque, in quello spettacolo della natura, ma le caratteristiche di ogni Paese sono peculiari e ciò che non rientra abitualmente nella nostra esperienza ci sorprende immancabilmente.
Sempre durante quel breve soggiorno, gli capitò un altro fatto singolare.
Era ormai il tardo pomeriggio, e, mentre il sole tramontava, Dino, al termine dell’attività giornaliera, uscì in abbigliamento sportivo per fare jogging. L’ambiente era davvero invitante.
Mentre correva lungo un sentiero, che si inoltrava nel bosco del parco, vicino alle sponde del lago, cominciò a sentire dietro di sé uno strano rumore, precisamente un “ciuf ciuf” ripetuto, come se qualcuno lo seguisse. Allora, incuriosito e anche un po’ allarmato, poiché cominciava ad imbrunire, si fermò, voltandosi, per vedere cosa mai ci fosse, e, incredibile a dirsi, scoprì che, alle sue spalle, a poca distanza, stava avanzando verso di lui proprio la cicogna del nido che aveva notato la mattina di quello stesso giorno.
Evidentemente, aveva familiarizzato con lui…
Dino mi ha raccontato spesso dei suoi numerosi viaggi in Russia, nei distretti del Volga e degli Urali, zone a clima continentale, in cui, d’estate, si sfiorano i 40°, mentre d’inverno la temperatura precipita, scendendo molto al di sotto dello zero, attanagliando gli esseri viventi nella morsa del gelo.
Particolarmente interessante si rivelò quello del luogo, in cui sorge il monumento ai caduti delle battaglie del Don.
In quel momento, la temperatura era di -36° e spirava anche un forte, gelido vento, che faceva rabbrividire e sferzava la distesa ghiacciata della steppa.
All’improvviso, Dino con i suoi colleghi si trovò avvolto da una bufera di neve, che impediva la visibilità e rendeva un po’ affannoso il respiro.
Allora il suo pensiero andò ai nostri militari, che avevano combattuto in quei luoghi freddi e inospitali, muto, significativo scenario di tragici eventi, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Gli sovvennero le toccanti, dolorose, crude memorie di Giulio Bedeschi e di Mario Rigoni Stern, che, partendo dalla personale esperienza, raccontano, con viva partecipazione umana, gli stenti, le privazioni, le sofferenze indicibili dei nostri alpini, costretti a combattere contro il nemico, anche in condizioni disperate, al fronte e durante la tragica ritirata, e, nel contempo, perennemente in lotta con le avversità, la fame e il freddo dell’aspro inverno russo, sino allo stremo delle forze…
Scorrevano nella sua mente quelle immagini efficacemente evocate dall’intensità del sentimento…
Rivedeva in modo nitido i nostri valorosi alpini, piegati dallo sforzo, deboli, stanchi o feriti, mentre marciavano faticosamente, affondando nella neve alta della sconfinata steppa, allo scoperto, in balia della sorte, senza riparo alcuno, con l’unico sostegno della propria fede, del senso di appartenenza al proprio gruppo, del vincolo di amicizia fra commilitoni, dello straordinario spirito di solidarietà fraterna, nella condivisione della sventura comune; uomini provati certamente dalla violenza della guerra, ma ugualmente carichi di dignità anche di fronte alla brutalità del disumano conflitto.
Richiamato bruscamente alla realtà, trovandosi, in quei momenti, in balia delle intemperie, nella gelida morsa della tormenta, Dino si chiese, mentre si allontanava da quel luogo, ricco di suggestioni storiche, nella sacralità dell’espressivo silenzio, come i nostri alpini fossero riusciti a resistere, per un intero anno, visto che lui e i suoi colleghi, pur essendo dotati di un equipaggiamento adatto alla circostanza, non riuscivano a rimanere all’aperto per più di quindici minuti consecutivi.
Certamente a caro prezzo, nella maggior parte dei casi con il sacrificio della propria vita…
L’epilogo della Campagna di Russia fu, infatti, tragico, il numero delle vittime, dei dispersi e dei feriti elevatissimo.
Essa si concluse con una strage, una carneficina, che lasciò, anche in quella terra straniera, nelle modeste isbe dei villaggi contadini, una scia di lutti e di distruzione.
La semplice gente del luogo non era ostile, anzi le donne, le giovani madri e i vecchi guardavano con un senso di simpatia e di pietà i nostri giovani; si dimostravano perfino disposti a sfamarli con il poco cibo che ancora rimaneva nelle povere case, più volte saccheggiate dai militari di turno, appartenenti agli opposti schieramenti, spesso addirittura bruciate dagli stessi soldati russi, per la spietata logica bellica…Lì, all’interno delle capanne, non si avvertiva la presenza del nemico, stranamente, tutti si sentivano ugualmente vittime consapevoli, in lotta per la sopravvivenza.
All’esterno, invece, infuriava la battaglia, fra aspri combattimenti, scoppi e bagliori sinistri…
La steppa sconfinata, landa desolata nella morsa del ghiaccio, si trasformò, a poco a poco, in una triste distesa di morte, disseminata di cadaveri e di corpi esausti, privi di forze, immobilizzati fatalmente dal gelo...Molte vite, che le armi non riuscirono a straziare, vennero ghermite dai patimenti, dallo sfinimento, dal freddo intenso…
Pochi furono risparmiati dalla sorte, un numero esiguo i superstiti, in molti casi gravemente feriti o ammalati, rispetto a quanti erano partiti dall’Italia, sani e vigorosi.
Oltre a stroncare brutalmente la vita dei più o a privare della salute molti di quei giovani tanto generosi, ma così sventurati, la devastante esperienza bellica in Russia straziò e ridusse in miseria le loro famiglie, lasciando un gran numero di vedove e di orfani o, nei casi più fortunati, un marito o un figlio invalido o mutilato…
La visione di quella zona, che era stata crudo teatro di guerra, aveva dunque rievocato una terribile pagina della Storia del ‘900, da ricordare come monito, perché una simile tragedia non si abbatta più sui popoli e perché le guerre che ancora affliggono molti Paesi cessino al più presto.
In quell’occasione, dopo la significativa visita della zona del Don, carica di intense emozioni, anche il viaggio di ritorno a Mosca fu avventuroso. Seguirono tre ore veramente critiche, poiché trascorse sempre in mezzo alla bufera di neve e, per giunta, di notte, con l’aereo militare russo, che vibrava violentemente, per cui si sentivano sinistri scricchiolii…
DA "LA STORIA DELLA “MAGRETTA”,
pubblicata nell’Antologia “Il muro possibile”, Laura Capone Editore
C’era una volta una fanciulla poverissima, orfana di madre, che viveva di stenti, e perciò magra e pallida, tanto che i paesani la chiamavano “la Magretta”.
Il padre le voleva bene, ma faceva il taglialegna e trascorreva gran parte della giornata nel bosco, lasciandola spesso da sola.
Desiderava tanto avere un bel vestito, come le altre bambine del villaggio, i suoi cenci erano logori e ormai corti e stretti; era, infatti cresciuta…ma nessuno si curava di lei…se avesse avuto vicino almeno la sua mamma…
Una mattina, accanto al suo letto, trovò, inaspettatamente, un bel pacchetto, legato da uno spago. Incuriosita, per l’incredibile sorpresa, cominciò, un po’ tremante, ad aprirlo. Chissà cosa conteneva e se era per lei e chi lo aveva portato…Tutte queste domande le si affollavano nella mente, mentre lo scartava. E…meraviglia delle meraviglie… vi trovò uno stupendo, scintillante vestito, come quello della principessa, che aveva visto un giorno, mentre scendeva dalla carrozza, per recarsi in chiesa… Ebbe, allora, come per magia, una straordinaria visione: una dolce e splendida creatura, vestita di luce, con i capelli biondi ed una bacchetta in mano, le apparve, e, guardandola teneramente, le disse: - Sono la Fatina dei Desideri…ho visto i tuoi patimenti quotidiani, ma anche la tua bontà. D’ora in poi, non dovrai più preoccuparti per la tua vita e per il tuo caro papà…ci sarò io accanto a te, e ti aiuterò sempre…
DA “LO SPIRITO DEL PRATINO”
DAL CAPITOLO I
IL “PRATINO”
All’uscita dalla scuola, dopo il saluto del maestro, che aveva accompagnato lungo il corridoio la propria classe perfettamente in fila e in assoluto silenzio, seguiva un’esplosione di allegria, si creava una straordinaria animazione, fra il vociare concitato di ragazzi, che, finalmente liberi, potevano accordarsi sui giochi pomeridiani. In particolare, a partire dalla terza elementare, nelle belle giornate di primavera, compagni e amici si salutavano con l’espressione: “Alle due e mezza al Pratino”.
Dino, Renzo, Claudio, Francesco, Ezio, Doriano, i due Gianni, Vincenzo e tanti altri annuivano.
Lì si radunavano, arrivando, a gruppetti, da ogni angolo del paese. A loro si univa spesso Adio, un biondino dagli occhi azzurri, vicino di casa di Dino, di un anno più piccolo.
Il “Pratino” era ubicato a qualche centinaio di metri dalla sua casa, che era l’ultima di una strada che si snodava per un’impervia salita sino in cima al poggio più alto che dominava il paese. Era una striscia di terreno non coltivato, dove crescevano spontanei un’erbetta di un bel verde brillante, disseminata di variopinti fiori selvatici, e diversi cespugli di ginestra, dai caratteristici fiori gialli, chiamati “il maggio”. Era delimitata, da un lato, da una strada bianca, fiancheggiata da alte querce, e dall’altro da una scarpata che terminava in una valletta sottostante.
Lì si svolgevano, all’interno del gruppo di amici, i giochi più disparati, dai tiri con le fionde e gli archi, ingegnosamente costruiti da loro stessi, alle bombe di terriccio, lanciate dentro il cavo di un tronco, in cui si annidavano pericolosi calabroni, allo scopo di cacciarli via, alle arrampicate sulle querce e alle discussioni all’ombra della grande quercia.
DAL CAPITOLO XII
AI PIEDI DELLA GRANDE QUERCIA
…Era un giorno d’aprile, mese in cui la primavera ti accarezza nel vento e ti riempie gli occhi di nuovi colori. Come di consueto, Marino uscì di casa, nel pomeriggio, per andare nel vicino “Pratino” a fare la sua passeggiata serale. Colto da un malore, piegato dai dolori lancinanti di un infarto al cuore, cadde riverso fra l’erba, proprio ai piedi della grande quercia. Essa aveva vegliato sui giochi forsennati ed entusiasmanti di quel gruppo di ragazzini vivaci e fantasiosi, di cui aveva fatto parte suo figlio; aveva ascoltato i loro racconti, raccolto le confidenze innocenti. Proprio nel “Pratino” Dino aveva trascorso le ore spensierate della sua fanciullezza. La crudeltà del destino aveva trasformato quel suo lontano, magico regno di felicità in un tragico scenario di morte.
Si era faticato a ritrovare suo padre, secondo il racconto del fratello che, una volta rincasato, non vedendolo, era uscito a cercarlo insieme con i vicini allarmati dall’inquietante scomparsa. Il suo corpo giaceva supino, immobile presso le radici della vecchia e maestosa quercia, con la testa canuta reclinata da un lato. Forse, prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta, avrà sorriso a quei volti felici di bimbi spensierati. Egli non lo era stato più da tanto tempo, ma, a volte, anche i remoti ricordi più belli riaffiorano nella mente, recando l’estremo saluto a una vita operosa, spesa tutta nel bene.
Lo spirito del “Pratino” aleggiava ancora in quel luogo antico, caro alla memoria di chi, come Dino, ne recava nell’animo l’indelebile impronta.
Alcuni giorni dopo il funerale, egli ritrovò la forza di ritornare in quel luogo, per capire bene dove si fosse accasciato il padre e per portargli un fiore. Allorché, tuttavia, abbandonata la strada, salì nel “Pratino”, si trovò di fronte a una distesa di margherite e di altri variopinti fiori di campo e vide che dai cespugli delle ginestre spuntavano i primi fiori gialli. Il “Pratino” aveva dunque provveduto “in proprio” a rendere omaggio a suo padre.
Dopo quella volta, egli non ritornò più in quel luogo per moltissimi anni e, allorché volle rivederlo, non ritrovò più ciò che ogni tanto gli ritornava in mente. Una parte del “Pratino” era stata occupata da case e la restante parte, deturpata da vari scavi, era diventata una boscaglia. Avevano resistito al tempo e alle moderne trasformazioni quasi tutte le querce, fra cui la grande quercia, che aveva visto l’evolversi della sua vita dall’infanzia alla giovinezza, quella parte della sua esistenza che si era conclusa con la morte del padre.
Tuttavia, lo spirito del “Pratino”, che consisteva nei valori dell’amicizia, della solidarietà, del coraggio, dell’intraprendenza avrebbe sempre accompagnato lui e i suoi amici durante le varie esperienze e le vicissitudini della vita.
Anche a distanza di moltissimi anni, gli amici di allora, ritrovandosi in paese per qualche ricorrenza, ricordano con estrema vivezza, confrontandosi sorridenti, i bei momenti vissuti insieme durante la gioventù e i particolari di quelle esperienze forti della loro fanciullezza…
E’ commovente, per chi le osserva, ravvisare lo stretto vincolo di amicizia e di affetto, nato nell’infanzia, che continua a legare le persone anche da adulte; gli stessi vecchi amici si sentono naturalmente accomunati da un’intesa fatta di ricordi, di scambio di foto ingiallite, di sguardi allusivi, anche solo dalla freschezza di un sorriso.
Sfogliando un vecchio album – fornitogli da una amico -, che raccoglie le foto di quegli anni lontani, Dino ha ritrovato le sue radici: la preziosa testimonianza di uno spaccato della sua vita e di quella dei suoi amici, risalente al tempo della loro adolescenza; nella maggior parte di esse compare la figura di don Tito, con la tonaca nera e l’espressione del volto attenta o sorridente, sempre presente e vigile nel gruppo, e, con il passare degli anni, con la fronte più stempiata…
Ognuno di loro ha portato in sé lo spirito del “Pratino” e, a oltre cinquant’anni di distanza, nei loro sguardi si può scorgere il balenio della vivacità giovanile e il calore del legame affettivo che ancora sorprendentemente li unisce con la stessa intensità di allora…
Come se il tempo si fosse magicamente fermato, ricreando quel piacevole senso di libertà, di creatività e di fraterna intesa che ha permeato il loro animo sin dalla fanciullezza affinando la sensibilità, ravvivando lo slancio verso l’avvenire e rendendoli le persone speciali che sono diventate, per i valori umani interiorizzati, quei “bravi ragazzi” che don Tito voleva che fossero.
Marilena Parro Marconi