Associazione

Circolo della Cultura del Bello

Sacile

Vittorio Coluccia

Vittorio Coluccia nasce nel Salento, a Castro, provincia di Lecce, il 25 gennaio del 1948. Qui trascorre l’infanzia fino al termine della Scuola Media, mentre per le Superiori si sposta a Lecce. 

E’ il 1969 quando l’obbligo del servizio militare lo porta, giovane sottotenente di complemento dell’Esercito, a Udine dove decide di “fermarsi” per qualche anno. A Udine incontra Vanda, la donna della sua vita: è bella, solare e gioiosa … e Vittorio, innamoratissimo, decide di stabilirsi in quella città ordinata e pulita dove si trova bene. Stabilizza così il suo rapporto con le Forze Armate, si sposa nel 1975 ed intraprende la carriera militare che lo porta a Trieste, nuovamente a Udine, a Treviso ed infine a Sacile dove vive tutt’ora. Nei suoi venticinque anni di servizio Vittorio acquisisce il grado di Colonnello e viene insignito dei titolo di Cavaliere di S. Maurizio per Meriti di Servizio. 

Da sempre, si dedica al Volontariato con spirito di servizio ricoprendo anche ruoli di responsabilità in periodi diversi ed in varie Associazioni quali: Lions Club di Sacile, l’A.N.L.A. di Sacile e l’Associazione Amici della Musica di Sacile della quale è attualmente Presidente.

Contemporaneamente collabora con la moglie, già gallerista in Cividale del Friuli dal 1978 al 1988, nell’organizzazione e conduzione di iniziative culturali e mostre d’arte.

Recentemente per la Sezione narrativa si è classificato 2° al Concorso Nazionale A.N.L.A. 2015.

La lontananza però non fa dimenticare Castro dove ritorna, a volte per la Festa della Patrona: La Madonna Nunziata, ed ogni estate.

Raccolta “Castro,  primo ‘900… Gente di Mare “


PREFAZIONE

Mi sono allontanato dai luoghi dove sono nato e cresciuto pensando che sarei potuto sempre tornare e questa convinzione mi accompagna tutt’ora e mi regala l’illusione di un distacco temporaneo, breve, quasi provvisorio. E’ come se fossi partito per un viaggio più o meno lungo e, come per i viaggi, prima o poi vi avrei fatto ritorno.

Penso che questo sia un sentimento assai diffuso fra quelli che come me, un po’ curiosi e un po’ costretti, si sono allontanati da Castro o dal loro luogo natio.

E’ passato molto tempo da quel lontano gennaio del 1969 ed ho visto e vissuto nuovi luoghi ed esperienze diverse, ma sempre ho vissuto con il cuore a metà lasciandone una parte a Castro; quei luoghi hanno visto la difficile quotidianità della mia Gente di Mare in quel … primo ‘900 nel Salento, penisola appartata, anticamente detta “Terra di Mezzo”, terra tra due acque …” MIXAQUAE ” appunto: “ MESSAPIA “, l’antico nome del Salento.

Il ricordo dei nonni, zii e parenti “antichi” mi ha accompagnato come un corredo di memorie cucito addosso. Esso è rimasto sempre vivo e presente ma come un po’  dormiente fino a quando, nel 2013, ho incontrato il “ Corso di Scrittura Creativa” presso l’UTE di Sacile, mia seconda patria. Gli stimoli e le “provocazioni” letterarie della prof. Marta Roghi hanno sollevato il  coperchio della memoria e sono nati questi racconti.

A lei va un sentito ringraziamento per avermi dato stimolo e fiducia.

Alla mia Vanda, moglie dolce, paziente e generosa, va il mio grazie per il sostegno discreto e sicuro che mi ha dato e per la libertà che mi ha sempre riconosciuto.

A voi cari lettori che vi avvicinate, bontà vostra, a questa raccolta, un saluto di benvenuto in “Terra d’Otranto” ed aggiungo di Castro, e magari un brindisi con un buon bicchiere del generoso “Rosato del Salento”!

Buona lettura! Vittorio Coluccia




1 - UN UOMO DI MARE

La caloma


“ Tu lo cerchi e non lo vedi, ma se aspetti con pazienza prima o poi lui ti vedrà. Resta calmo, mano salda… dolce … e attendi; quando meno te l’aspetti, ecco… lui ti toccherà. “

Così parlava a Domenico nonno Fernando che se la godeva a proporgli enigmi sulle cose che di tanto in tanto gli insegnava. Era molto vecchio e con fatica governava la mano e la gamba sinistra, fumava ancora la pipa e il sigaro toscano ed era sempre con lui di buon umore.


Potrebbe cominciare così la storia della vita di un grande uomo di mare il cui interesse principale era stato sempre quello di catturare del pesce e questo, si sa, quasi mai lo vedi se non dopo che l’hai preso all’amo.


“ Vedi – gli diceva seduto sull’uscio  al sole di un primo pomeriggio autunnale – l’amo va tenuto fermo mentre gli avvolgi intorno il filo che poi tiri forte forte… ma attento a non pungerti che se l’amo ti prende poi non ti lascia più, te lo deve levare la nonna o la zia e ti esce il sangue… “  E intanto gli insegnava ad annodare gli ami che appendeva ad una lunga cordicella riponendo poi il tutto, delicatamente, in una cesta di listarelle d’ulivo. Era un gioco affascinante che appassionava il nipote. Il nonno curava sempre le sue cose e preparava  con meticolosità le sue arti di mare. Aveva pescato in tante maniere, con la canna, con le reti e con la  caloma.

Quest’ultima arte, che ora continuava a praticare, piaceva particolarmente a Domenico e qualche volta il nonno lo portava con sé.

“ Tu stai quieto qua eh! mi raccomando “ gli diceva, poi, tolte le scarpe e arrotolati i calzoni, entrava coi piedi nell’acqua sul lapito, l’irregolare e frastagliato bagnasciuga che prolunga nel mare la scogliera; sistemata la cesta all’asciutto, assicurava un capo della cordicella  ad un galleggiante con sopra una piccola vela nera e lasciava andare quest’ultima al vento sul mare. Lentamente la vela, piccola e solitaria, si inoltrava nel grande mare e richiamava la cordicella che, srotolandosi, lasciava la cesta  portando con sé gli ami ai quali il nonno infilava l’esca: un pesciolino preso la sera prima con le reti o un grosso verme  recuperato nel grande mucchio di rifiuti fuori le mura. Quando tutta la funicella era svolta, legava il terminale alla roccia e tornava accanto al nipote  portandogli un granchiolino o una cozza patella che Domenico gustava con grande gioia.


Il ragazzo avrebbe voluto procurarsi da solo quelle ghiottonerie ed era sempre pronto, scalzo e con i pantaloncini arrotolati a mutanda,  ma il nonno, conoscendo l’incertezza del lapito disseminato di piccole buche spesso coperte da lussureggianti alghe, glielo vietava categoricamente e lo ricompensava così. Poi rovistava nelle tasche dell’inseparabile gilè, preparava ed accendeva la pipa e gli sedeva accanto.

Per Domenico era un regalo bellissimo: lui e il suo nonno soli davanti al grande mare: all’orizzonte lontane, piccole sagome di navi che andavano a Brindisi o a Bari o forse  ad Ancona o addirittura a Venezia e Trieste, lontana a sinistra il promontorio di S. Cesarea, a destra, lontanissimo e azzurro come il cielo ed il mare, quello del Capo di Leuca, sul mare, nelle immediate vicinanze, solo la piccola vela della caloma, il calmo sciabordio di una piccola infinita ondina e tanta quiete intorno.


“ Vedi – indicava il nonno – quella nave va sicuramente a Trieste, è un cargo carico di caffè che viene dalle Americhe: a Trieste scarica il caffè, carica grano e vino e ritorna nelle Americhe; quell’altro invece è un incrociatore della Marina Militare con due piccoli dragamine di scorta: viene da Brindisi e va a Taranto nel Mare piccolo, dove c’è la grande base navale della Marina Militare e dove sono andato per la visita di leva; quella bianca è una nave passeggeri, trasporta anche persone che girano il mondo in cerca di lavoro o di parenti, o solo per vedere i posti che non conoscono; tutti vanno per mare, anche la nostra caloma che ci sta pescando tanti bei pesci che poi la nonna ci cucinerà, eh si.” E si faceva una piccola risata.

Sapeva tante cose il vecchio nonno Fernando e le raccontava con garbo affettuoso  a Domenico che le  riceveva come un dono speciale e godeva di quella occasione imparando con gli occhi ogni cosa e fantasticando sulle sue imprese future.


Quando poi non era a pesca, nonno Fernando passava del tempo nella bottega del figlio Gaetano dove spesso trovava il piccolo Domenico.

Questi si incantava ad ascoltarlo e chiedeva sempre di raccontargli delle sue numerose  avventure: di quando il pescecane, non avendolo potuto divorare, gli aveva rotto tutte le reti e di quando, forse lo stesso, prese a morsi la sua barca, o di quando aveva giocato col delfino e di quando pescò il polipo gigante. Per il nipote era meraviglioso ascoltare il nonno mentre papà, falegname, segava, piallava ed inchiodava le sue tavole.  


Da grande, pensava Domenico, mentre godeva di quel particolare rapporto con il nonno sugli scogli della Palummara, non avrebbe fatto né il pescatore né il falegname. Essendo molto curioso del mondo e della vita, non poteva fermarsi là, nelle mura della sua piccola città, ma voleva conoscere e capire le arti di pesca per poterle poi comunque praticare. Lo affascinava quel gioco delicato e forte tra l’uomo e il pesce, il primo cacciava, il secondo ignaro della truffa, cercava di mangiare l’esca e spesso ci restava;  i pesci si comportavano tutti in modo diverso, diceva il nonno: c’era quello che toccava e basta e poi ritornava per addentare con avida voracità e strattonava violentemente, allora bisognava saper reagire e governare quell’attimo per lasciarlo andare e agganciarlo con l’amo tirando e mollando un po’ e poi recuperando lentamente la lenza; c’era quello che mangiava con tocco così delicato che si percepiva appena e lentamente, dopo, si allontanava portandosi dietro il filo, allora bisognava dare uno strappo, confermare la presa  e recuperare; il difficile però era il recupero finale perché il pesce non voleva uscire  dal suo mare e tirava, strappava, si divincolava e più reagiva più l’amo penetrava col rischio che il filo si tagliasse e quindi si poteva liberare; allora bisognava avere molta calma, recuperare dolcemente, con mano salda, preparare il retino e fare in modo che il pesce, una volta a pelo d’acqua, vi entrasse per poi  tirarlo sullo scoglio, con calma poi si toglieva l’amo ed infine si riponeva  il pesce nella cesta. In questa c’erano sempre delle alghe e il nonno, di tanto in tanto, le bagnava…, serviva a mantenere il pesce fresco il più a lungo possibile, diceva.

Intanto la caloma  pescava, il sole calava e i colori prendevano un altro tono: lo sciabordìo del mare si attenuava fino a quietarsi e tutt’intorno era un lento andare del tempo verso la fine del giorno.

“ Vedi – diceva il nonno – che  magia avviene ogni giorno a quest’ora? Guarda: il mare lontano va dall’azzurro al celeste e poi al grigio perla per unirsi e confondersi con il cielo che sembra una parte della tua scatola di pastelli colorati mentre il mare vicino lancia argentei bagliori, la scogliera rivela il verde intenso dei cespugli e l’azzurro delle rocce frastagliate; questa bellezza la trovi solo qui e ovunque andrai, ti resterà nel cuore!”  Domenico osservava e gustava tutte queste cose che gli sembravano naturali, col tempo e con la lontananza avrebbe capito che erano davvero speciali.


Poi il nonno prese a ritirare la caloma, con calma, riponendo la lenza e gli ami ordinatamente nella cesta, mentre i pesci li poneva a parte, sopra un telo già sistemato in una conca nelle rocce. Gli occhi di Domenico brillavano per la meraviglia, seguivano tutto con avida curiosità e sentiva che anche il nonno era molto contento.


In passato, raccontava anni dopo a Domenico il papà mentre il ragazzo lo aiutava nella sua bottega di falegname,  il nonno era stato un grande marinaio e pescatore e spesso, sorridendone al ricordo, gli parlava di alcune sue imprese che lo incantavano più delle storie della Carmelita, una cugina più grande, i cui racconti di Rolando, Rinaldo e Angelica meritano però un altro spazio.


Le ope


A quel tempo tutti avevano buone gambe perché si andava a piedi dappertutto: al grande mercato del mercoledì a Poggiardo, in campagna,  in chiesa, dal dottore che non sempre veniva col calesse da Marittima, alla Festa dei paesi vicini o anche alle Calabrie per la vendemmia o la raccolta del grano o delle olive; i pescatori poi di buon mattino andavano nei paesi vicini a vendere il pescato della notte, in mare erano andati con barche a remi, col vigore della braccia e della schiena naturalmente e solo talvolta, se erano troppo lontani dal porto  e se c’era un po’ di vento, armavano la vela e questa li aiutava un poco.

Le arti di mare seguivano le stagioni che puntualmente offrivano sacrifici e gioie sempre diverse; capitava così che in primavera, dopo “ le secche” di gennaio e febbraio, quando si poteva percorrere tutta la costa con i piedi a mollo, sul lapito quasi asciutto, per raccogliere cozze patelle, cozze nere , granchi e polipetti, venisse il passaggio delle ope, pesce azzurro di piccolo taglio, ottimo arrostito, per il sugo della pasta e soprattutto per  la sarsa :  pesce fritto e poi marinato a più strati con mollica di pane raffermo, menta, aglio e aceto da scolare e rinnovare per sette giorni. Era il primo che “passava” vicino alla costa discendendo l’Adriatico, lo si aspettava con ansia e qualcuno scrutava sempre il mare verso S. Cesarea salendo fino su sulla Torre Cavaliera a fare “ la vedetta “. Domenico era molto piccolo ma ricordava bene perché la sua casa, sopra il negozio di alimentari di papà, si trovava proprio sotto quella torre e si affacciava sulla piazza detta della “ Portaterra” dove in genere si ritrovavano gli uomini. I più vecchi guardavano il cielo, poi il mare e sentenziavano: “ Mah! Quest’anno saranno in ritardo…, ho sentito dire che al Nord è ancora freddo e quindi ...” Poi un giorno la “ vedetta “ lancia un grido -  Sumenee sumeneee! – era il segnale: voleva dire  “sono arrivate”, e allora negli occhi degli stanchi pescatori si accendeva una luce, un brillìo sfavillante come il luccichìo  del banco di pesce che in lontananza increspava il mare.

Anche Domenico lo vedeva: era altalenante e ritmico e lentamente discendeva verso Capo Mucurune.

Allora tutto il paese si allertava e correva giù al porto,  al mare, alle barche e forzava sui remi per giungere sulla grande pezza di pesce  di passaggio. Alcuni equipaggi preparavano sbarramenti con le reti, altri calavano reti di tartana,  nelle vicinanze della grande pezza. I più giovani poi, da soli e su barche più piccole chiamate schifi, a forza di vigorose remate, guadagnavano il centro del grande banco di pesce che risalendo e spingendo in su dagli strati più profondi rendeva precaria la stabilità dello schifo , ma i giovani e gagliardi pescatori, incuranti e ben saldi sulle gambe, affondavano i coppi e issavano  a bordo lucenti e guizzanti manciate di pesce.

Era tutto un fervore e un lavorìo che liberava finalmente la tensione della lunga attesa e segnava la fine dell’inverno.

A quel tempo quindi tutti avevano buone gambe per camminare e i pescatori anche buone braccia per vogare.



Sarde arroste ad Otranto


Per qualche tempo si pescavano   ope,  culei o sgombri e maccarelli. Veniva poi il periodo delle sarde e, come spesso accade in primavera, il tempo e il vento cambiavano di frequente obbligando la flottiglia dei pescatori di Castro a spostarsi in un porto più riparato, quello di Otranto.

L’essere stata Castro in passato sede vescovile insieme a quella di Terra d’Otranto e l’aver condiviso le disavventure dovute alle frequenti incursioni  di Turchi e Saraceni, aveva come gemellato le due fortezze  marinare portando spesso  i Castrioti a trascorrere alcune settimane tra le loro barche, il mare e le taverne di Otranto; era una pacifica invasione che talvolta però, quando c’era mare grosso, costringeva gli uomini a terra e talvolta nasceva qualche rissa, dovuta spesso a stupidi campanilismi o a semplici malintesi, animando e allarmando così le tranquille viuzze dell’antico e pacifico cittadina del salento.


Una  volta, dopo molte insistenti richieste, i due cognati Gaetano e Arturo, intanto che i loro genitori, marinai e capi-barca, si erano trasferiti con le barche e le reti, portarono ad Otranto i figli Amedeo e Antonio, fratelli appena minori di Rosario e Fernando, in Seminario per frequentare le scuole medie; erano andati per fargli visita, portare qualche indumento ricambio ed assicurarsi che si comportassero bene: lì potevano frequentare la Scuola e forse, col tempo, scoprire una qualche vocazione e magari farsi preti.


Andarono  poi al porto dove, da alcuni giorni a causa dello Scirocco, i nonni Fernando e Rosario  accudivano le loro barche. Qualche settimana prima , presentatosi lo Scirocco, i capibarca avevano armato l’antenna, il grosso e robusto albero-maestro infilato nella panca al centro della barca e ben piantato nel paiolame e nel primo del fondo-scafo L’antenna aveva in cima un piccolo foro ove talvolta era legata una piccola carrucola  per issare con una cima l’asta che costituiva il bordo superiore e obliquo della grande vela  triangolare; gli altri due lati della vela si univano e si offrivano in mano al timoniere che la regolava cazzando  o lascando la scotta, una cima molto corta. La vela era un grande aiuto nei lunghi percorsi e per trasferirsi, possibilmente in favore di vento, ad Otranto.

Quel giorno, quindi, i due cugini si sentivano in festa, andavano con i loro papà a trovare i fratelli più grandi e forse “ ormai perduti”, quei “maestri di vita”, campioni insostituibili di tutti i giochi; poi sarebbero andati al porto di Otranto a far visita ai nonni, protagonisti di imprese temerarie e fantastiche, duri come la roccia ma capaci di grandi ed iaspettate tenerezze.

Per i due ragazzi era una festa, un premio, una vacanza, insomma erano felici; la gioia dei nonni poi, nel veder sgambettare quei due discoli sotto, sopra e dentro le loro barche insieme ai due figli che, artigiani ormai affermati, li rendevano orgogliosi, era palpabile anche se ben trattenuta. La dura vita del mare non concedeva tempo e spazio a sentimentalismi  o altre “debolezze” e rari erano i momenti di confidenza tra genitori e figli ma quella era una situazione davvero speciale e unica per tutti e così, ad un certo punto  Rosario, d’accordo con Fernando, propose: “Mbeh! E’ quasi ora di pranzo ormai, facciamo due sarde arroste? …anche i ragazzi avranno fame!” E detto fatto, rompono qualche casetta di legno, recuperano alcuni legni e rami  ributtati dal mare e improvvisano un fuoco sulla riva: arriva la graticola e si scelgono le sarde più grosse pescate nella notte, appare il bottiglione del vino e si fa a gara ad arrostire e mangiare, con le mani, senza piatti né

é posate , solo un po’ di pane.  Il fumo spande nell’aria l’inconfondibile profumo che spesso Domenico sentiva di sera  per strada.  Si ride e si parla ad alta voce in una atmosfera di grande complicità che contagia anche altri equipaggi; ci si dà la voce e si scambiano amichevoli sorsi di  vino. I due nonni accudiscono ed insegnano ai ragazzi:“  Mangiate così, prendete la sarda per la coda e poi, un po’ alla volta, mettete in bocca, tanto delle sarde … si mangia tutto – dice nonno Gaetano – anche la spina … e la testa? – chiedono a turno i ragazzi – certo, la spina è flessibile e la testa sa sempre di pesce … se proprio volete scartare qualcosa … mbeh! … scartate la coda e buttatela a mare …ah! …ah!” e se la rideva contento.




2 - IL  SALE SUL MARE

IL PREPOSTO


Di corporatura minuta ma fermo e deciso nel carattere, Antonio era nato e cresciuto nelle lontane Calabrie, in un paesino sull’Aspromonte. Era venuto su con la mamma Rosalia e la sorella Maria, in una modesta casa vicino alla chiesa e spesso, guardando dal campanile il mare lontano, fantasticava su luoghi e paesi che da grande avrebbe potuto conoscere . Prima o poi, pensava, avrebbe abbandonato quel suo piccolo borgo dove non succedeva mai niente di nuovo e sarebbe partito per tornare ogni tanto a trovare la mamma e la sorella. Con l’aiuto del parroco, aveva studiato e conseguito il diploma che gli permetteva di  fare la domanda per entrare nel Corpo della Guardie di Finanza, era stato accettato ed era partito per Roma. Al termine era stato assegnato ad un distaccamento che comprendeva anche il territorio di Castro.

  A Benestare, nelle Calabrie, era cresciuto senza padre, nel suo paesino isolato tra i monti. La asprezza di quei luoghi lo aveva forgiato e modellato facendolo uomo senza paura, attento e vigile ma anche tenero e dolce come  le primavere nelle impervie Serre della sua montagna. Partendo per Castro, aveva salutato madre e sorella promettendo loro prudenza nel servizio, attenzione alla sua salute e certezza di ritorno; quest’ultima cosa ancora non gli era stata possibile e spesso la nostalgia gli procurava un velo di malinconia: rivedeva la sua mamma sempre intenta a cardare la lana e a ricavarne interminabili fili che lui, da bambino, arrotolava e poi rivedeva i suoi luoghi, le aspre Serre ed il forte Aspromonte,  impraticabile eppure tanto ricco di vita e di risorse .  

Ora gli faceva compagnia solo una domanda: avrebbe saputo ambientarsi, e per quanto tempo, in quel posto così diverso, aperto al cielo ed al mare, questo mare che era la vita per la gente di Castro e che lui aveva visto sempre lontano, quando saliva sul suo campanile per suonare le campane?

Adesso era lì, per controllare e contrastare  eventuali irregolarità sulla raccolta del sale e sulla coltivazione del tabacco. Era complicato attendere a questo servizio perché la raccolta del sale era molto diffusa lungo le coste da Otranto al Capo di Leuca e spesso, i pescatori, rientrando con il saporito raccolto, si facevano precedere dalle donne o dai bambini perché incontrassero per primi “ i Preposti ” e, smettendo di cantare o di vociare, li avvisassero consentendo a loro di nascondere il contrabbando. Domenico ricorda ancora che sua madre gli raccontava di quella volta quando alcune ragazze, al  crepuscolo di un giorno d’estate, rientravano con il sale nascosto nel grembiule e cantavano allegre quando intravidero, da lontano, che Antonio, il “preposto”, le seguiva. Temendo un controllo le ragazze si misero a correre e Antonio le canzonava gridando: “Correte, correte, che tanto vi ho riconosciute … e tu, Cilestra, dove fuggi così lesta?  Ti  riconobbi dalla vesta!” , si riferiva a Celeste, una ragazza dalla veste molto colorata, ma quelle correvano ridendo, divertite d’averla fatta franca.  

Era così diffusa questa pratica che ancora oggi, in molte località tra la costa e l’interno, si trovano “ i sentieri del sale”.

In tutta questa nuova realtà, Antonio, uomo della Legge, scrupoloso, rispettoso e rispettato, non era stato da subito ben accolto poiché “nemico“ degli interessi della comunità.  Talvolta riceveva attenzioni non proprio benevole dai “giovinastri”  del paese che si divertivano a metterlo alla prova con scherzi anche pesanti: una volta, raccontava il papà al figlioletto Domenico, quando Antonio,  ormai congedato,  faceva anche il  sagrestano, un “giovinastrio” si  sostituì ad un  morto nella bara aperta in chiesa e in attesa del funerale del giorno dopo:  voleva sorprenderlo nella penombra alla chiusura della chiesa per spaventarlo mentre i suoi “ compari “ stavano nascosti fra i banchi. Al passaggio di Antonio, il falso morto si levò a sedere pregustando l’effetto della trovata, ma per nulla intimorito Antonio lo apostrofò: ” Se non sei morto, scendi dalla bara e vattene a casa ma siccome eri morto, torna dentro che ti chiudo e domani ti seppelliamo!”  E mentre prendeva il coperchio la paura fu tanta che il “giovinastro” con i suoi compari scapparono di corsa fuori dalla chiesa.

Con il tempo però, si sarebbe conquistato la stima e poi l’affetto della gente mettendo a disposizione le sue qualità umane e le sue capacità acquisite nell’infanzia e in gioventù: sarebbe divenuto il sarto e il barbiere del paese, poi il prezioso accordatore  dell’orologio del campanile e anche lo scrivano per la gran parte di mamme, mogli e fidanzate dei Castrioti lontani.

Aveva molti dubbi Antonio e non poteva certo immaginare che qualche anno dopo, a Castro, dove poi si sarebbe fermato,avrebbe trovato moglie ed avrebbe avuto  molti figli ed essendo uno dei pochi che all’epoca sapeva leggere e scrivere sarebbe diventato anche  un prezioso riferimento e perfino l’ accompagnatore di alcuni emigranti nelle Americhe.


IL SALE E IL TABACCO

Quel bianco e brillante tesoro, un mucchietto di piccoli cristalli irregolari, l’anziana mamma lo guardava rapita: il suo  Fernando, anche stavolta le aveva portato un dono prezioso, un bianco mucchietto di sale raccolto con tanta pazienza, in quelle fredde ma soleggiate mattinate di tardo inverno, nelle piccole conche sul mare a Mucurune. Quella della raccolta del sale non era proprio un’attività ma un passatempo. Nelle notti di tramontana, quando pescava con la lenza da terra, Fernando puliva per bene le piccole conche naturali tra gli scogli e poi vi metteva dell’acqua di mare, giusto un filo; di giorno poi, dopo pranzo, ritornava e al posto dell’acqua evaporata trovava un velo di bianco sale che delicatamente  raschiava e raccoglieva in un telo che intanto nascondeva tra i sassi. Ripetendo l’operazione intanto che perdurava la tramontana, aumentava il mucchietto e alla fine riempiva la bisaccia, che portava sempre in spalla. La magra economia di un pescatore di Castro viveva anche di questo prezioso contributo che il mare generosamente offriva. Spesso diventava oggetto di regalìa a quelli che vivevano nei paesi dell’interno: Vignacastrisi, Diso, Ortelle e Spongano, che producevano solo i prodotti della terra. Purtroppo però il sale era, come il tabacco, Monopolio dello Stato e quindi non si sarebbe dovuto fare ma i pescatori, pur sapendolo, lo ignoravano perché non sembrava loro una cosa poi tanto irregolare: in fondo era solo un “frutto“, fra le tante “ spine “, del loro mare. Sì perché il mare, almeno quello che lambiva la costa davanti a Castro, era il loro  mare, una proprietà della comunità e tutto quello che dava, che fosse pesce, sale e scogli, bonacce e mareggiate, era di tutti e di nessuno in particolare, quindi ognuno si adoperava per trarne qualche vantaggio e spesso con grande fatica.

Quando il sole veniva più caldo, quel velo d’acqua di mare lo si aumentava e così aumentava lo strato di sale sul fondo delle conche e la bisaccia si riempiva prima, talvolta anche in giornata. Con la bella stagione poi,  tutto cambiava: si stava più volentieri sui lapiti a curare quel che d’inverno non si poteva e soprattutto le donne, di solito lontane, in casa o nelle campagne, scendevano a fare il bagno e a prendere un po’ di sole. Allora la costa verso Mucurune e verso Pile si animava di lunghe sottovesti bianche  e di un chiacchiericcio allegro, insolito per quei luoghi aspri e solitari; alcune si immergevano negli otini sui lapiti e lì guazzavano gioiosamente, mentre quelle che sapevano nuotare e si sentivano sicure, magari con la barca del marito vicina,  affrontavano qualche breve nuotata nel grande mare, felici di vivere quell’ambiente che ogni notte occupava gli uomini portandoli lontani da loro. Ed erano felici infine di risalire, con la scaletta di legno, sulla barca e  allontanarsi poi, per asciugarsi al sole e quindi rivestirsi fra le loro braccia, sole, con i loro uomini finalmente all’aperto ma nel privato di una dimensione unica e nuova: li loro uomo, la sua barca, il sole e il  grande mare.

Sui  lapiti, a terra, qualche donna  in età avanzata si univa alle giovani negli otini , si univa ai pettegolezzi e si godeva quelle abluzioni nel  frangersi ritmico della risacca: una sorta di primitivo idromassaggio che rinfrescava per il resto del caldo giorno. Tutto questo succedeva poco dopo l’alba, quando il sole ancora non scaldava troppo e l’acqua sembrava meno fredda. Alla fine, si era di ritorno a casa in tempo per fare tutto: dare  la colazione ai piccoli rimasti a casa coi nonni, accendere il fuoco per la quotidiana pignata,  scaldare l’acqua, fare il bucato con la cenere ed infine preparare il pranzo, l’unico pasto che si consumava tutti insieme; sì perché  il capofamiglia e i figli maschi, a volte anche in tenera età, nel pomeriggio scendevano al porto con le reti in spalla, si imbarcavano e stavano in mare fino a tarda notte o anche fin dopo l’alba.

Quando non erano in mare, gli uomini e qualche donna più robusta, curavano piccoli e sparsi fondi a grano, legumi ed ortaggi e quasi tutti  coltivavano alcune piante di tabacco, per le esigenze degli uomini che spesso consideravano il saper fumare come una pratica di passaggio all’età adulta e che quindi mantenevano come simbolo dell’essere uomini.

Il tabacco, Fernando, lo coltivava in un fondo vicino Monte Lacquaru,  in piccole aiuole, dove la pendenza del terreno favoriva il raccogliersi della poca pioggia; intorno a queste aiuole piantava insalata e cicoria che pure “avevano tanta sete” diceva e che a tavola erano molto gradite. Trattandosi di piccole produzioni di tabacco, non erano soggette a controlli poiché solo ad uso di chi le coltivava; giunte a maturazione, le foglie andavano ben essiccate al sole e poi riposte, ben aperte e raccolte una sull’altra in un panno, in un luogo asciutto e sicuro, lontano dagli  alimenti  e dal vino. Era un lavoro lungo e delicato che richiedeva competenza, continuità e pazienza e che quasi tutti facevano con consumata esperienza e capacità. Domenico ricorda ancora che nonno Fernando ogni tanto prendeva alcune foglie dalla riserva, che custodiva gelosamente, e, tenendole ben ferme su una apposita tavola,  con il suo affilato coltello tagliava delle fette molto sottili, lo trinciava – diceva – ed in fine, tutto contento, caricava l’inseparabile pipa e se la fumava di gusto.


L'INCONTRO

Quel giorno Fernando si apprestava a tornare a casa da Punta Mucurune;  aveva ispezionato le sue conche, nascosto il sale appena raccolto e riposto il sigaro spento nel taschino del gilè; gesti semplici e sempre uguali ormai abituali; quindi, buttata a tracolla la fedele bisaccia, dove teneva sempre un pò di pane, un pezzetto di formaggio, qualche fico secco e l’immancabile scorta di tabacco trinciato per la pipa, lasciava i suoi lapiti e incominciava a percorrere il sentiero che portava su, verso le mura del castello. Il rumore della risacca ed il leggero passo del giovane preposto non gli avevano rivelato la scomoda e sempre malvista presenza del finanziere: era questi quel nuovo giovane forestiero che l’Italia aveva destinato a quel luogo remoto e quasi per tutti sconosciuto, per il controllo del monopolio del sale e del tabacco.

Il sentiero, da sempre percorso tra gli irti scogli di pietra viva, concedeva un singolo passaggio e Fernando si fermò, vigile e pronto, davanti alla Legge;  non conosceva quel giovane preposto, ma aveva sentito dire che la minuta corporatura si bilanciava con una risolutezza insospettata di un carattere  determinato e sapeva che già molti suoi compaesani si erano trovati in difficoltà. Non era ben visto in paese il funzionario venuto da fuori che non capiva quella semplice cosa che “ il mare dà e, se non stai attento, il mare prende” e quello che dà lo dà a tutti quelli che lo vivono perciò, quella storia che il sale non si potesse  fare era proprio una assurdità e Fernando, temendo che quel finanziere, avesse visto il suo nascondiglio, stava sul chi va là.

Hai fatto il sale, vero? – esordì quello ed intimò – Mostrami la bisaccia!”.

“ Non se ne parla! “ rispose Fernando e quello: “ Mostrami la bisaccia, ho detto!”  intimò nuovamente. –“ Non se parla proprio, non ho fatto il sale, mi devi credere e basta!”   Rispose Fernando seccato dalla evidente autorità e  sapendo che non aveva nulla di compromettente. “ Ho detto e ripeto …  MOSTRAMI LA BISACCIA!” – insistette il finanziere ed allungò una mano come per prendergliela; Fernando, per sua natura mansueto ma insofferente degli atteggiamenti da lui ritenuti ingiusti,  si infuriò, gli afferrò il polso e ribatté – Ti ho detto,  … NON SE NE PARLA PROPRIO  E SE STAI CERCANDO IL SALE – mentre gli occhi balenavano rabbia per dover reagire ad un così manifesto sopruso – VAI A TROVARLO IN MARE!” Poi,  con un piccolo passo indietro, sbilancia l’omino, lo solleva e lo lancia alle sue spalle verso quei vicini lapiti appena lasciati; il preposto atterra nella bassa acqua dove le alghe rigogliose ne attenuano la caduta. “Adesso sei contento?  - chiese Fernando un po’ preoccupato per la piega eccessiva degli eventi e continuò – non ho niente da nascondere … guarda!” – e gli mostra la bisaccia vuota mentre si avvicina e gli porge una mano. “ Non posso credere senza vedere e devo fare il mio dovere,” rispose il preposto afferrandogli la mano e tirandosi all’asciutto. Poi continuò :” Tu sei Fernando, sei una brava persona, ma ricordati che il sale è dello Stato ed io sono stato mandato qui per questo, per garantire lo Stato. Debbo fare il mio dovere e ti terrò d’occhio!”

Fernando capiva di aver esagerato ma era stato più forte di lui e quindi, quasi per scusarsi – “ Mi dispiace- concluse - ho esagerato ma non sopporto che qualcuno mi alzi le mani … ti offrirò da bere  … più tardi.”

E riprese il sentiero verso casa mentre il finanziere restava ad asciugarsi un po’ su quegli scogli difficili e taglienti come quella gente di mare.

Al riparo fra gli scogli, sui quali aveva messo ad asciugare i pantaloni,  Antonio guardava il mare e gli parlava quasi, pensando a quello suo di Bovalino, nelle Calabrie, dove si recava d’estate con la mamma Rosalia e la sorella Maria; questo mare gli sembrava lontano, ma lo sentiva amico e pensava a quella sua scelta di lasciare la casa e le sue cose  sicure per affrontare il nuovo ed incerto in paesi lontani. Aveva fatto bene? Ne era proprio certo? Quest’ultima vicenda con questo giovane ed onesto pescatore, che in fondo non faceva male a nessuno,  che cosa voleva dire? Forse aveva solo incontrato uno orgoglioso quanto lui o forse lo erano tutti in quel posto,  sarebbe stato possibile o duro “fare il proprio dovere“ in quello sperduto lembo della nuova Italia?

Con tutti questi interrogativi Antonio rimise i calzoni e tornò nel suo ufficio per registrare l’accaduto. Era da pochi giorni preposto, appunto,  a questo incarico e registrava tutto ma era la prima volta che non sapeva come e cosa scrivere: poteva scrivere esattamente quanto era accaduto? Poteva registrare che la sua intimazione non era stata osservata ma che aveva incontrato uno scoglio di roccia viva quanto permalosa?

Nel suo registro quel giorno scrisse poco, omettendo ovviamente la  reazione ed il volo in mare.  

Più tardi poi, uscendo di casa, incontrò Fernando che lo invitò a bere; Antonio accettò e diventarono grandi amici e poi anche cognati.



3 - ALLE AMERICHE

Alle americhe



“ All’America … all’America! Si partee … si va all’Americaa!”

Ai primi del ‘900 questo grido correva di bocca in bocca e aveva contagiato tutta l’Italia meridionale ed in particolare Castro, dove la vocazione marinara avrebbe dovuto sostenere le pesanti invernali sciroccate.  sul finire della bella stagione, quando ormai non si sarebbero potute praticare le arti di mare ed era ancora presto per la raccolta delle olive, questo verso passava di barca in barca come un richiamo e contagiava quella rude gente di mare di un entusiasmo nuovo e sconosciuto.

Anche Fernando si infervorò e ne parlava quotidianamente con la giovane moglie, entusiasta all’idea di poter dare una svolta ad una vita difficile, grama e sempre uguale.

“ Si Rosalba … qua c’è poco da fare, non ci manca niente ma non abbiamo quasi  nulla .. ché, è vita questa? E poi … ci sono le medicine da comprare … e il dottore da pagare.  Non possiamo dargli solo e sempre del buon pesce e poi … quando non si pesca? No! No!, non si può … questa non è vita. C’è la possibilità di andare dove si può lavorare, io la salute ce l’ho e vado a vedere che si può fare.” “ Ma è così lontana l’America e poi … come facciamo a pagarti il viaggio? Quello costa tanto … più di 100 lire.” “ Questo è vero ma … posso vendere la barca, tanto, se parto non mi serve.”   “No!,  quella è la tua vita, hai fatto tanto per averla e non è giusto, piuttosto vendiamo quella mia parte di casa che non usiamo mai, quella di Villa di  Mara che dà solo fichi e fichi d’india.”  Già, Fernando non ci aveva proprio pensato. Quella proprietà portata in dote da Rosalba, parte di una grande casa circondata da un terreno brullo e sassoso, buono solo per alberi di fico e fico d’india, non era stata usata dalla giovane coppia presa com’era dalle quotidiane difficoltà: sposati da pochi anni, con due figli piccoli che richiedevano spesso le visite dai medici, il primo per gli occhi, chiari e deboli, il secondo perché gracile e mal nutrito perché  Rosalba, magra e asciutta come una sardina, non aveva latte e non sapeva come quietare il pianto disperato della sua piccola creatura; ci voleva sempre il latte del dottore e quello costava.  

Il povero Fernando si prodigava nei lavori più vari: di notte, quando il mare lo permetteva, con gli altri alla Chianci , con le lampare o con le reti degli Ntramacchiati, il Tramaglio, poi da solo al Conzo o alla Tartana e poi, una volta a terra, di buon mattino, portava a piedi il suo pesce nei paesi dell’entroterra per venderlo o barattarlo ed infine, nei ritagli di tempo, tra il riordino delle reti e un breve riposo, curava i piccoli fondi dove piantava fave e finocchi, ceci e fagioli, tabacco, pomodori e un po’ di grano; non conosceva sosta se non raramente alla domenica.

Questa era la sua vita, tutti facevano così e forse sarebbero diventati vecchi così, se il Signore li avesse lasciati, come i loro padri e i loro nonni!

Si …- pensava Fernando - quella parte di casa di “Villa di Mara”,  costruita anticamente per l’estate al mare dai nobili avi della giovane moglie, era una proprietà in più che poteva essere “sacrificata” e così fu.

Venne il giorno della partenza, Fernando e Rosalba si salutarono teneramente promettendo reciproca attenzione a se stessi, ai bambini lei e ad un pronto ritorno lui, che andava a “cercar fortuna” così lontano…

“ All’America –  raccontava il nonno al nipote -  è tutto diverso … non ti capisci con la gente che viene da tutto il mondo e parla altre lingue … anche se vuoi non li capisci, pensa che una volta, quando lavoravo in un grande negozio che vendeva di tutto, uno mi chiese Succar o Succol e io andai su un alto scaffale a prendere “zoccoli” per il suo piede e non gli andava bene nessun modello e numero , non so quante volte sono andato su e giù, forse dieci volte a cambiare la forma  o il numero e lui mi diceva ogni volta – No! No!, succar … no! No!, succol -  e alla fine, pensa …,  voleva zucchero  … ah! …aah! Voleva zucchero ed era proprio dietro al bancone, a portata di mano. No! Non si poteva stare, c’era una tale confusione e una tale fretta …  tutti che volevano di tutto e poi, alla fine della giornata … che potevi fare? Niente, andare all’osteria a bere vino o un liquore forte che ti bruciava la gola e lo stomaco, dove qualcuno voleva fare a botte senza motivo  …,  no! Non era per me, non si sentiva mai il mare, che pure ce n’era stato tanto per arrivarci …no! Carusu meu, quella non era vita e così, dopo un mese me ne tornai col primo vapore.”

Qualche tempo dopo, il suo ritorno e particolarmente quando ormai nonno Fernando non c’era più, un suo più giovane compagno di emigrazione raccontò di un alterco inaspettato con un corpulento emigrante che parlava una lingua a loro incomprensibile. Loro non ne capivano il motivo ma forse, nella confusione del fumo e della calca,  avevano bevuto  involontariamente un bicchiere di vino di quell’altro; stava di fatto che quello si arrabbiava e non sentiva o non capiva le giustificazioni né le loro scuse. “ Insomma, sembrava che volesse a tutti i costi fare a  pugni con qualcuno, forse lo faceva ad arte perché i suoi amici,  poco a poco, formarono intorno un cerchio mentre incitavano l’omone che intanto si era tolto la giacca; uno dei suoi poi, prendeva in giro dei soldi mentre  faceva dei segni con le dita: 2 o 3. Continuando il racconto l’amico diceva:”Io non capivo ma vedevo che tanti davano soldi di carta all’uomo che li metteva in tasca mentre alcuni pezzi di metallo venivano gettati a terra all’interno del cerchio. Insomma, stavano scommettendo sull’esito del combattimento e Fernando l’aveva capito e, mentre mi diceva che per quello non si toglieva neanche la giacca, si girò di scatto e gli sferrò un diretto in faccia mandandolo tra le braccia dei suoi amici. Sorpresa e meraviglia non fermarono quelli che lo ributtarono al centro del cerchio, di fronte a Fernando. Quello lo guardava con occhi furiosi e, cercando di stare dritto sulle gambe, con i pugni menava colpi a vuoto nell’aria.

Allora Fernando gli si avvicinò, gli prese un polso e dicendogli – Vai a dormire che è meglio! -  glielo roteò fin sotto il mento colpendolo e quello cascò giù come un sacco di patate e lì restò a dormire. La confusione aumentava esageratamente, io vidi che alcuni portavano via l’omone  e che quello dei soldi era scomparso e che tanti lo cercavano mentre altri e  in tanti si avvicinavano a noi e volevano portare in trionfo Fernando come li si usa con quelli che fanno la boxe. Lo portarono anche davanti ad uno vestito molto elegante, di bianco e con un cappello pure bianco e quello gli fece vedere una bella  mazzetta di dollari, ma a Fernando non interessava,non voleva diventare un boxer,  si scherniva e, con il mio aiuto, ce ne siamo tornati alla nostra baracca, la casetta di legno dove  ci avevano sistemato all’arrivo dopo la quarantena. Fu quella sera che lui decise di tornarsene col primo vapore.”


LA  CALMA DI PAPA’


La giornata dei muratori volgeva ormai al termine, il sole perdeva la sua tracotante insistenza  calando lentamente sulle serre ad occidente e Domenico, con suo padre, raccoglievano il saluto degli operai intenti a riordinare  gli attrezzi: “ Buona sera maestro … a domani! – Salute figlio … - rispondeva il papà , riconosciuto e stimato maestro del legno – a domani … a Dio piacendo!” Erano passati alcuni anni, il nonno non c’era più e si stavano  costruendo le case di Santu Nicola , così si chiamava quell’appezzamento di terra, che sarebbero venute buone per un figlio, secondo la tradizione, ed essendo vicine al mare, potevano essere affittate d’estate ai villeggianti.  Ogni giorno, dopo aver pranzato, Domenico, ormai dodicenne, scendeva con il padre alle case nuove,  portando un thermos di caffè e una bottiglia di acqua fresca, e dava una mano a Stefano, suo coetaneo e  giovane aiutante dei muratori,  mentre papà controllava e ragionava con il maestro muratore sulla migliore interpretazione del progetto dell’ingegnere … “ Ti ho aspettato, maestro, per decidere dove fare questa porta, qua … o là? Sulla carta non si capisce bene! - Non badare alle carte – rispondeva paziente e calmo maestro Gaetano - quella porta mi serve qua! – E lì veniva fatta.  Domenico  si era ormai abituato, sapeva che l’ultima parola la diceva sempre il so papà, con calma ma con la risolutezza di chi ha già ponderato e non ammette repliche, e questo succedeva ogni giorno. Intanto che suo padre controllava, discuteva e disponeva, Domenico, incapace di star fermo, aiutava Stefano a trasportare mattoni e piccoli pesi fra i tanti che il camion scaricava più in basso dove finivano le strade: eh già, la nuova  casa nasceva in un fondo dove non arrivava ancora la strada e quindi tutti i materiali, più o meno pesanti, finivano tra le mani o in spalla dei giovani manovali e Domenico era contento di partecipare a quell’andirivieni operoso. Poi, quando tutti avevano lasciato il cantiere, lentamente lui e il padre risalivamo le scale e raggiungevamo la litoranea, la lunga strada asfaltata che, serpeggiando lungo la costa, collega le Marine di tutta l’Italia.   Qui si fermavano un po’ per riposare - e anche per vedere dall’alto come procedeva l’opera - diceva papà -  ed ogni giorno gli spiegava qualche nuovo sito lontano stendendo lo sguardo verso il Capo di Leuca: “ Vedi quella Punta nel mare laggiù, sotto quegli alberi di fichi? – Sì – rispondeva pronto Domenico ,felice del privilegio di avere il papà tutto per se, intanto che i suoi tre fratelli più grandi si trovavano lontani  per gli studi con la zia Maria  e quello più piccolo era con la mamma a casa,  - E vedi quel bel paiaru rotondo, di pietra e ben fatto che sta in alto sulla serra?  -  Sì papà … lo vedo – E vedi quella grande casa che sta sotto,  con tutte quelle finestre e la bella e grande terrazza? – Sì , sì … la vedo – Ecco … quella casa si chiama “Villa di Mara”… “ In un tempo ormai lontano,  una parte di quella villa era di nonna Rosalba ed il nonno  la volle vendere per 200 lire per andare in America … a cercare la fortuna, ma per fortuna dopo un mese tornò e fu un bene perché la nonna, rimasta sola, si ammalò e non mangiava più… Insomma, così è la vita … se ogni tanto ti fermi e con calma consideri tutto quello che devi fare e lo affronti un po’ alla volta, con l’aiuto del Signore … e con la pazienza arrivi a fare tutto …! Ricordati … mai fare il passo più lungo della gamba … se no cadi e ti puoi fare male, e allora ti tocca prima guarire e poi rifare tutto da capo! Ricordati …, con calma!”  

Domenico non capiva tutto quel discorso, lui  saltava, correva e riusciva a fare tante cose e tutte di corsa ma poi, guardando il grande mare che sconfinato, superava la Punta del Capo di Leuca, sentiva la sua piccola e giovane età e pensava che forse aveva ragione papà.


Castro 23 aprile 2013

Vittorio Coluccia



L’ANGOLO LETTERARIO DEI SOCI

Racconti e poesie