Associazione Circolo della Cultura del Bello - Sacile - (Pordenone)

Le mappe

Cosa c’è, all’apparenza, di più intellettualmente ovvio di una carta geografica? Che dire di una serie di mappe di Sacile dal 1633 al 1868 se non l’ovvia  considerazione che si tratta della testimonianza di una città che cresce, come tante altre in Italia ed in Europa.  Eppure, a ben guardare, come molte altre espressioni dell’attività umana ove la prima pretesa è il disegno di una realtà che si vorrebbe oggettiva e pertanto indiscutibile.  Per l’appunto,  le mappe che riportiamo, pur umiliate a francobolli di internet, ingrandite e rimpicciolite, strattonate e sgranate da un semplice menù a tendina avviato con un click del mouse,  sembrano saperla lunga sulla storia di Sacile non meno che sulla storia d’Europa.

La prima, mi assicurano risalente al 1633; distinguibilissimo Palazzo Ragazzoni in tutte le sue particolarità, a sottolinearne l’importanza per la città.  A questo fa pensare il palazzo nobiliare facente tutt’uno con il Borgoricco. Una struttura  sostanzialmente chiusa all’esterno,  a definire una vasta piazza centrale quadrata: quasi una recessione alla villa tardo imperiale romana e poi medievale; un castrum a difesa da scorrerie esterne -ancora i Turchi?-  Nel palazzo, fornito a sua volta di una corte nobiliare chiusa, microcosmo più elegante ma ancora più asfittico, i Ragazzoni, una volta pieni di voglie di viaggi e di mare, languivano in una vita da nobili di campagna; proprio loro,  che solo cent’anni prima misuravano la propria ricchezza dal numero di navi in viaggio per i loro commerci,  si dovevano accontentare di  un tempo che svaniva in un sogno decorativo, in un’atmosfera illusoria, illuminata dei bagliori di un barocco contorto e dorato, sottile tormento di una gloria e ricchezza perduta. I Ragazzoni vedono ancora acqua dal loro palazzo. Ma è l’acqua dolce della Livenza, forte confine con il resto della città, passata da un solo ponte, difesa da una torre giunta quasi ai nostri tempi, struttura ambigua a definire due spazi, uno interno ed uno esterno che paiono quasi intercambiabili. E gli altri canali intorno, fortificati dalla torre a nord est, tuttora esistente e da una zona paludosa ad est e a sud, a rafforzare l’idea del castello autosufficiente, quasi una permanenza della realtà medievale, nella sua implicita contrapposizione al Comune ad ovest, oltre il fiume.

Sommaria e sognante nella sua atmosfera medievale appare il “Castello di Sacile”. La vista della città appare schizzata da un carboncino nervoso, presa più da un taccuino di viaggio, nell’imprecisione di un ricordo, che rispondente ad un fine topografico. Verosimilmente tratta da una carta geografica della regione, l’immagine del nostro castello appare avere un senso prevalentemente evocativo, così chiaramente e volutamente sproporzionata nel riportare il campanile di S. Gregorio e del Duomo. La posizione delle due torri suggerirebbe una vista proprio da Palazzo Ragazzoni, che, però, a sorpresa, non è riportato. L’ immagine è quella del viaggiatore che intravvede da lontano la città, dopo miglia di strade incerte, attraverso tutta la fitta silva lupanica -la vista è proprio da Est-, “buscus” che si estendeva a Liquetia usque ad Tilimentum. Ricordava, l’ignoto viandante, il “Castello di Sacile”, con le sue torri ed  i suoi due importanti campanili e li riportava  in una mappa della regione, a simbolo di una città ben sicura nelle sue mura, distinguibile da lontano per i suoi due campanili, messaggio di un viaggiatore ad un altro.

Tutto è cambiato all’alba del 1800. Venezia ha esalato l’ultimo respiro arrendendosi  senza combattere ad una Francia con cui, pensava,  avrebbe continuato a danzare graziosi minuetti a Versailles; una specie di trasloco,  nella casa di una sorella più giovane e ricca, ma ugualmente preziosa ed azzimata, pensava Manin, l’ultimo Doge, il Romolo Augustolo dell’Impero Veneziano. Scopriva invece, l’attonita Venezia dai colori di confetto, il ciclone Napoleone.  Divinità litigiose avevano donato un giorno ad Atene, non a caso anch’essa marinaia, il dono supremo della democrazia. Ora un esercito di soldati scalzi e laceri, ma forniti di una modernissima artiglieria, portava sulla punta delle proprie baionette l’egalitè e la libertè degli antichi dei. Fu vera Gloria?  La nobiltà e la tradizione è spazzata via in nome dell’uguaglianza.  Cambia la percezione del tempo e dello spazio. E quest’ultimo deve essere ridefinito.

Ecco Sacile e perfino la sua Livenza,  imprigionata in una mappa piena di linee e triangolazioni di un rilievo topografico in formazione. L’umile angolino ha lo stesso rilievo ed è rilevato alla stessa maniera del nostro palazzo, del resto umiliato da un numero,  probabilmente il mappale di proprietà. E poi il tempo, diventato improvvisamente veloce, scandito dal susseguirsi  e  dall’andirivieni degli eserciti austriaci e francesi;  a ben guardare la mappa non è finita: le linee di triangolazione sbordano, le costruzioni principali sono sottolineate con un carboncino od un gessetto, a dare l’impressione di un lavoro di ottima professionalità, ma anche affrettato, quasi ad alludere ad altre mappe in un futuro forse passato in mano austriaca.

Austriaca, infatti è la successiva carta di Sacile del 1810. E’ una carta militare. Risulta precisa ma sommaria, come di chi ha fretta di andare oltre, a Vienna, a Berlino, a Mosca,  e vuole semplicemente  conoscere la posizione e la forma della città lungo la propria via. La tempesta dell’impero repubblicano,  del nuovo febbrile che cercava un’impossibile stabilità, aveva coinvolto anche lo spazio ed il tempo dei suoi nemici; nulla  sarebbe rimasto più come prima ed il blitz-kreig delle fulminee artiglierie francesi, sarebbe diventato sogno, od incubo, tedesco. Il nostro Palazzo Ragazzoni diviene così un segno qualsiasi sulla mappa, rilevato senza particolari, una specie di grande casolare al di là della Livenza.  E come non  notare, poi, l’involontaria ironia del cartografo, il quale fa sostenere la bella “S” corsiva di Sacile proprio dai nobili tetti dei Ragazzoni, non immaginandone certamente l’onusta storia e nobiltà che avevano custodito?

Rassegnata, Venezia va agli Austriaci, un impero centrale, forse sorpreso dall’aver catturato, senza molto merito, la regina delle onde veloci e del mare mutevole. Forse con un certo  sussiego, l’Austria, non può che imporre la propria burocrazia, funzionante, onesta, ma pedantemente alpina. Ecco allora la mappa successiva. Napoleone in vacanza coatta all’Isola d’Elba e poi, prigioniero dell’ironia di Albione, imperatore di S. Elena, non scoppia più dall’uno all’altro mar. Metternich aveva restituito l’illusione dell’eternità con i suoi balli viennesi. La Mappa è precisa, ci piace immaginare costruita sui rilievi francesi che l’avevano preceduta, chiara soprattutto nel delineare le proprietà catastali, opera attenta di chi vuole restare ed amministrare. Sono tornate le nobiltà imperiali, ma la storia non torna indietro: non si può ripercorrere due volte il fiume del privilegio e della nobiltà; ed i nostri Ragazzoni sono irretiti, come tutti gli altri cittadini, nella rete dei mappali, a controllo e lettura di quello che è loro e quello che non lo è. Il palazzo è delineato con precisione in senso burocratico, come traccia precisa di un’area e di uno stato di fatto documentale.

Infine arriva l’Italia, che conquista?… si annette?...si riunisce?... a Venezia in seguito, ahi ineguagliabile ironia della storia,  a Lissa, catastrofe navale  inflitta alla flotta tirrenica del  Regno d’Italia da un Austro baffuto, ammiraglio Teghetoff, capo di marinai dalmati, imbarcati su navi in legno, che riuscirono ad affondare piroscafi  in ferro all’urlo -sacrilego?- di “Viva san Marco”. La mappa, del 1868, risulta meno precisa della precedente: praticamente uno stradario. Anche il nostro palazzo  si deve adattare a delimitare delle strade che hanno tuttora le medesime caratteristiche. Non ci sono più i mappali a delimitare le proprietà, a testimonianza di un catasto volontariamente distrutto, per la cui rinascita si dovrà aspettare il 1980. In compenso, dirimpetto al complesso Ragazzoni-Borgoricco, appare una stecca di casette per gli operai delle prime filande. Avanguardie di un nuovo turbine che si andava addensando sull’orizzonte della storia.  Si preparava il temporale dell’industrializzazione che di lì a poco sarebbe diventata un’aspra bufera; come quelle che Giacometto aveva visto tante volte  addensarsi, in un susseguirsi di lampi e di tuoni, sulle montagne sopra Sacile; per poi scendere lungo la Livenza a piegare salici e pioppi. Scontri di uomini, di spietati interessi, di vite annullate. Ma è l’equilibrio di una civiltà antica in un comune misterioso sentire, alla fine, a prevalere E di tutto quel cupo tumulto, di quel turbine impetuoso, non resta, alla fine, che un dolce singulto, nell’umida sera.

testo a cura di Giorgio Presot