Racconti e poesie
Racconti e poesie
Associazione
Circolo della Cultura del Bello
Sacile
IL QUADRO
Quel quadro era lì, sulla parete del camino, da sempre, come fosse stato costruito con la casa, impastato con la malta dell’intonaco. La carta ingiallita dal fumo era tutt’uno con gli odori della casa e della minestra che bolliva sul focolare.
Racchiudeva la foto di un uomo ancora giovane: baffi, occhi fissi, leggermente dilatati, espressione severa. Quell’uomo era mio padre, diceva mia madre, l’uomo che l’aveva lasciata un giorno per andare in America in cerca di fortuna. Sarebbe tornato presto e l’avrebbe portata con sé in quel paese lontano insieme ai suoi figli; oppure sarebbe tornato per sempre con un mucchio di soldi che avrebbero permesso alla famiglia di vivere tranquilla.
Invece non era più tornato e l’aveva lasciata incinta di un figlio che, diceva, se fosse stata una femmina sarebbe stata la sua “Diletta”. E “Diletta“ sono stata chiamata per tutta la vita nonostante il mio nome di battesimo fosse un altro.
Dal giorno della sua partenza quell’uomo non aveva dato più notizie di sé, né speso una parola alla notizia della mia venuta al mondo, né inviato mai un dollaro a mia madre, che continuava ad aspettarlo fiduciosa e a raccontarci la sua vita, insegnandoci ad amarlo e a sperare.
Qualche volta la sera la sentivo sospirare sommessamente, a volte si fermava davanti al quadro e a mani giunte pregava, senza farsi scorgere dai figli. Invocava la Madonna che proteggesse quel suo uomo lontano, lo ravvedesse, lo commuovesse il pensiero dei figli che lo aspettavano a casa fiduciosi.
Cosa poteva essergli successo? Forse era ammalato, forse era finito in una località deserta senza telegrafo, senza ferrovia… forse era andato in guerra ed era disperso in qualche landa desolata, forse era in prigione, forse un’altra donna. Questo era un pensiero sotteso, inquietante subito scacciato. Non era possibile, forse solo un capriccio, una scappatella di passaggio, gli uomini si sa come sono. Forse non aveva fatto fortuna e si vergognava o forse di fortuna ne aveva fatta troppa e gli aveva dato alla testa….forse, ma il cuore le diceva che l’ amava ancora e ogni supposizione veniva respinta. Sicuramente prima o poi quel marito sarebbe tornato. Così insegnava ai suoi figli a venerare la sua immagine e ad aspettare che quella figura all’improvviso si materializzasse comparendo nel riquadro della porta di casa, pronta ad abbracciarci tra le lacrime.
Passò tanto tempo nell’attesa, la speranza si affievolì a poco a poco, poi scemò del tutto.
Mio padre certamente era morto. Il quadro però rimase al suo posto indifferente a tutto.
Mia madre si ostinava a tenerlo in vista contro il parere dei parenti che imprecavano all’indirizzo di quel bastardo. “Non ti ha dato abbastanza guai? Che stai lì a rimirarlo, buttalo nel fuoco una buona volta!”
No! lei non voleva cancellare il marito dalla sua vita, i figli dovevano conoscere chi li aveva messi al mondo. E se fosse tornato? Cosa avrebbe pensato di lei? E cosa avrebbe pensato la gente e i tanti uomini che le rivolgevano sguardi ammiccanti e allusivi? Sarebbero diventati più audaci, l’avrebbero messa in tentazione e lei non voleva più saperne di uomini, aveva sofferto abbastanza. Quel quadro era come un talismano che la difendeva da mali peggiori.
Io qualche volta al buio prima di addormentarmi guardavo quella foto e sognavo l’America. Come doveva essere grande il mondo! Come doveva essere bello! Da grande anch’io sarei andata in America, in Africa, ovunque. Quante cose avrei fatto da grande!
Intanto crescevo, giocavo e studiavo. A scuola ero tra i primi della classe e mia madre era contenta, così il sussidio comunale per i libri e i quaderni era ben guadagnato.
In quinta elementare la maestra mi indirizzò alle scuole medie. Avevo talento, diceva, ero intelligente e volenterosa, sarei stata sprecata in un avviamento professionale.
Per la scuola media però a quel tempo ci volevano soldi, se volevo frequentarla bisognava chiedere un aiuto più cospicuo al Comune e ci volevano i documenti per dimostrare lo stato di indigenza della mia famiglia e soprattutto la mia condizione di orfana. Per questo era necessario il certificato di morte reale o presunta di mio padre. Mia madre lo chiese all’ufficio preposto e dopo una settimana si presentò allo sportello per ritirarlo, certa di ottenerlo.
Mi portò con lei quel giorno. Era una bella mattina di inizio estate, il cielo era limpido e trasparente, di un azzurro brillante. Uscimmo di casa presto, percorremmo a piedi la strada fino al centro. Intorno era un tripudio di colori, di profumi, di rose, di sambuchi, di glicini in fiore. L’aria tiepida era percorsa da un venticello leggero che ci accarezzava il viso, smuoveva i capelli. E leggeri erano i nostri passi.
Io saltellavo dietro mia madre raccogliendo qua e là qualche papavero, mia madre si muoveva spedita. Qualche volta rallentava il passo perplessa, un’ombra come una nuvola di passaggio rabbuiava il suo volto, poi quasi subito passava, poi di nuovo ricompariva in quella ruga leggera che le solcava la fronte al solito sempre distesa e serena. Infine svaniva ogni dubbio e i passi tornavano spediti. Perché avrebbe dovuto temere? Non era tutto così bello e favorevole?
Invece presto le speranze svanirono. No, non potevano emetterlo quel certificato: mio padre viveva ancora in qualche angolo sperduto dell’America!
Il volto di mia madre si rabbuiò di colpo, divenne immobile. Sentii la sua mano diventare rigida, fredda come il ghiaccio. Le dita mi strinsero in una morsa d’acciaio. Il suo volto divenne pallido, duro come una statua di marmo. Le labbra serrate mormorarono un metallico “grazie”. Poi si girò su se stessa, si avviò all’uscita.
In un baleno ripercorremmo a ritroso la strada di poco prima, ma non c’era più spazio per i fiori, i profumi, la luce del sole. I passi si fecero pesanti, ansimanti nell’affanno. In un attimo fummo a casa. Qui la delusione repressa e la rabbia esplosero come da un vulcano impazzito. Mia madre divenne di fuoco. Come invasa dalla furia di un ciclone si diresse al camino, staccò il quadro dalla parete, lo scagliò a terra con violenza. Tra i vetri rotti cercò la foto, la calpestò con rabbia, la strappò in mille pezzi e la gettò nel fuoco che sempre, anche se fioco, ardeva nel camino. Poi esausta si accasciò su una sedia e scoppiò in un pianto dirotto. “Non mi hai mai dato un aiuto nella mia vita, ora non lo dai neanche a tua figlia!”
Non avevo mai visto mia madre piangere né avrei mai pensato che qualche dolore la facesse soffrire. L’avevo sempre vista sorridente, serena, dolce, qualche volta rassegnata ma mai disperata. Solo allora compresi tutta la sua sofferenza sopportata in silenzio, solo allora notai le sue mani ingrossate, screpolate, rosse per il mestiere di lavandaia con cui ci sfamava. Le sue lacrime mi colpirono come lapilli infuocati, mi bruciarono la pelle. Ogni lacrima mi trafiggeva il petto con dolore. Giurai a me stessa che per ognuna di esse quella donna coraggiosa, a cui dovevo tutto, avrebbe ricevuto da me altrettante soddisfazioni. Avrei lavorato giorno e notte, con le unghie e coi denti, e avrei sfondato ogni porta.
Sul camino rimase a lungo un’impronta bianca che risaltava sulle pareti annerite dal tempo. La guardavo talvolta di notte, al buio ed era la mia finestra spalancata sugli infiniti orizzonti della vita.
2013 © Carla Paoloni
(Libero omaggio a Diletta Palazzetti)
**** O ****
PREFAZIONE
Se essere donna oggi non è sempre facile, nel passato è stato certamente difficile.
Essere donna ed essere poeta, poi, in un mondo in cui la cultura era esclusivo appannaggio maschile, se non è stata impresa impossibile, ha costituito spesso motivo di scandalo, di sospetto o addirittura di infamia.
“Le donne, lo so, non dovrebbero scrivere - dice Marceline Desbordes Valmore nel poemetto “Le Billet” del 1807 – ma io scrivo perché tu possa leggere da lontano nel mio cuore …”. Infatti le donne, a dispetto delle regole e dei divieti che la mentalità imponeva loro, a partire da una certa epoca (sec. XVI), quando si sono verificate le condizioni storiche per la diffusione della cultura e la loro emancipazione, hanno scritto, sempre più numerose.
Le voci delle donne nella poesia sono rare nell’antichità. Fatta eccezione per Saffo, per secoli le donne hanno taciuto sopraffatte dalla loro condizione di donne che le relegava a ruoli secondari, escluse da qualsiasi possibilità di espressione di sé, chiuse nella prigione, seppur qualche volta dorata, della casa, dei figli, delle vicissitudini e fatiche quotidiane.
Oggi le donne che scrivono romanzi e poesie sono tantissime. Da ogni parte del mondo ci giunge la loro voce che ci racconta la vita, i sentimenti, i pensieri dell’essere umano e soprattutto la sofferenza propria e del mondo intero. Come gocce d’acqua le donne nella letteratura a poco a poco si sono fatte onda, onda che ha provocato altre onde e, man mano che è aumentata la consapevolezza di sé e delle proprie capacità, sono diventate un mare, oggi quasi impossibile da conoscere ed enumerare in toto.
Spesso trascurate dalla critica, bollate col marchio di rappresentanti della “poesia femminile”, quindi poesia di serie B, è raro trovare i nomi di poeti donne nei testi di letteratura divulgativa o nelle antologie scolastiche. Umberto Saba dichiarava che solo Saffo è stata grande e che “una rondine non fa primavera”. Dacia Maraini nel suo poemetto “Donne Mie” riferisce il parere di un illustre critico letterario, da lei intervistato che giustificava questa abnorme assenza col fatto che “le donne non sanno rendere il colore del cielo dopo la pioggia”. Solo pochi studiosi (soprattutto donne) si sono preoccupati di raccogliere e interpretare la voce dei “Poeti con nome di donna”, come recita il titolo di un libro di Davide Rondoni e Francesca Cadel. In esso si legge: “Rendiamo onore ai tanti poeti con nome di donna che hanno offerto la loro voce alla vita di tutti. Hanno dato rilievo alle grandi domande di giustizia, di bellezza, di vero, che animano in epoche e culture diverse il cuore e la ragione di ciascuno, uomo o donna che sia.”
Nel presente volumetto si è cercato di rendere il percorso evolutivo delle donne nell’ambito della poesia, man mano che si è fatta spazio nelle coscienze la consapevolezza della condizione femminile e la volontà di emancipazione sia nella conquista dei saperi che nella libertà di poter essere se stesse e di potersi esprimere nelle forme e nei modi a ciascuna più congeniali. (Da “Poesia: la voce delle donne” - Carla Paoloni)
IL RISVEGLIO DELLE COSCIENZE DOPO LA RIVOLUZIONE FRANCESE
Scrive Franca Ongaro Basaglia nella sua analisi sulla donna (Enciclopedia Einaudi – 1978) che “la storia dell’essere umano femmina inizia nel momento in cui la donna comincia a lottare per la conquista di una umanità completa mai posseduta; quando comincia a misurarsi con se stessa e con la realtà, a tentare di modificarla e di modificarsi”.
Già agli inizi del ‘700 troviamo donne che si impongono fuori dagli schemi cercando di modificare se stesse e la società attraverso lo studio, non solo delle lettere e della musica, ma anche della scienza, della filosofia, dell’anatomia e della matematica. Come ad esempio Gaetana Agnesi che nel 1748 scrive un’opera sul calcolo differenziale o come Madame du Chatelet, “geometra”, che Voltaire ironicamente chiamava “Madame Pompon Newton” per i suoi studi e le traduzioni delle opere di Newton.
La Chatelet,vissuta tra il 1706 e il 1749, nel suo “Discorso sulla felicità” afferma che “l’amore per lo studio è più necessario alla felicità delle donne che a quella degli uomini, perché gli uomini hanno ben altri mezzi per dimostrarsi capaci e utili. … Le donne invece sono escluse da tutto per la loro condizione e non resta altro che lo studio per consolarsi di tutte quelle forme di dipendenza a cui sono condannate per il solo fatto di essere nate donne”. Solo l’amore per lo studio, continua, permetterà alla donna “di essere padrona della metà del mondo” e quindi di rivendicare uguaglianza e parità di diritti.
Siamo nei primi decenni del 1700, ma è solo dopo la Rivoluzione Francese e la “Proclamazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, che si diffonde tra le donne la consapevolezza della propria subalternità e la conseguente voglia di emancipazione.
Nel 1791 la scrittrice francese Olimpe de Gouges presenta “La Dichiarazione dei Diritti delle Donne e delle Cittadine”, dando inizio al movimento femminista. Naturalmente la Dichiarazione non verrà mai approvata e la De Gouges finirà sul patibolo per aver osato anche salire in tribuna e parlare in pubblico.
In Italia Eleonora Fonseca Pimental, donna colta, esperta di letteratura, fisica, botanica e diritto, tra i fondatori del “Monitore Napoletano”su cui scriveva ardenti articoli ispirati alle idee democratiche provenienti dalla Francia, con l’intento di conquistare le classi povere alle idee progressiste, si espone in politica fondando nel 1799, insieme a Luisa Sanfelice ed altri patrioti, la Repubblica Partenopea. Per l’occasione compone l’”Inno alla libertà” il cui testo è andato completamente distrutto. Scrive sul suo giornale: “Il Regno non è padronato, non è primogenitura, non è federcommesso, non è dote. Il Regno è amministrazione e difesa dei diritti pubblici di una nazione, conservazione e difesa dei diritti privati di ciascun cittadino”. Si batte perché tutti i cittadini ricevano un’adeguata istruzione perché solo attraverso l’istruzione “il popolo può elevarsi dalla sua condizione di plebe”.
Ma la rivoluzione napoletana ha vita breve ed Eleonora e i suoi compagni verranno impiccati il 20 agosto 1799. Prima di offrirsi al boia Eleonora pronuncia il verso di Virgilio “Forsan et haec olim meminisse juvabit” ( forse in futuro sarà utile ricordare queste cose). Il suo corpo per un giorno penderà dalla forca, privato degli indumenti intimi e sottoposto al pubblico ludibrio. Una canzone popolare canterà “ ‘A signora ‘onna Lionora/ che cantava ‘ncopp ‘o triato/mo’ abballa mmezz’ ‘o Mercato ./ Viva ‘o papa santo / c’ha mannato ‘e cannuncine/ pe’ caccia’ li giacubine “.
Le donne comunque si fanno sentire sempre più numerose e cominciano a scrivere pubblicamente.
Nel 1807 Marceline Desbordes Valmore (1800-1850), cantante e attrice, unica donna inclusa nell’antologia di Verlaine “I poeti maledetti”, apprezzata e stimata da Victor Hugo, scrive:
“Le donne, lo so, non dovrebbero scrivere;/ma io scrivo /perché tu possa leggere da lontano nel mio cuore, /come quando sei partito. Non dirò nulla che non sia in te/ molto più bello,/ ma la parola detta cento volte/ quando viene da chi si ama,/ sembra nuova ….
Ti dia felicità !/ Io resto ad attenderla, benché laggiù,/ sento che me ne vado per vedere e sentire/ i tuoi passi vagare (….)/ Non voltarti se vola una rondine/ lungo la strada,/ perché credo che sarò io che passerò fedele/ sfiorando la tua mano.”
Ma è difficile per una donna farsi accettare come scrittrice da una società che avverte questo come un sovvertimento pericoloso.
Emblematico è il caso di Jane Austen (1775-1817): nel 1811 in Inghilterra pubblica, a spese del padre, il romanzo “Ragione e sentimento”, ma nel frontespizio del libro, nello spazio riservato al nome dell’autore, comparirà la dicitura anonima “A Lady”.
Quando nel 1813 pubblicherà “Orgoglio e Pregiudizio” ci sarà scritto … “dell’autore di Ragione e Sentimento”. Sul suo epitaffio si leggerà solo che è stata donna di talento, come se la parola ‘scrittrice’ costituisse una vergogna o un marchio d’infamia.
Qualche anno prima Mary Wollstonecraft aveva pubblicato “l’Oppressione delle donne”, in cui tra l’altro rivendicava per le donne il diritto al voto. In essa dice: ”Donna, fragile fiore! Perché sei stata condannata ad adornare un mondo esposto a tali tempestosi elementi?”. Morirà di parto e, nell’omelia pronunciata dal pastore per la cerimonia funebre, tale morte tutta femminile, verrà attribuita alla punizione divina per le donne che vogliono varcare i confini stabiliti dalla società e da Dio.
Ma “la parola detta non muore”, dice Emily Dickinson, “anzi proprio in quel momento comincia a vivere”.
Così altre donne raccoglieranno il testimone e reclameranno i diritti negati, a cominciare dal diritto al voto.
(da “Poesia: la voce delle donne”- Carla Paoloni)
**** O ****
IL GIORNO DELLA “GALLOZZOLA”
Dopo un po’ le prime gocce di pioggia ci sorprendono in mezzo alla campagna, poi smettono, ma subito ricomincia una pioggerellina fitta e leggera.
Ci rifugiamo da “Ovvio”, il grande magazzino che si trova nei paraggi. Intanto la pioggia diventa acquazzone. Ci aggiriamo tra gli stand aspettando una schiarita che non arriva.
A mezzogiorno ci affacciamo all’uscita. Che facciamo? Apriamo gli ombrelli e ci avviamo o aspettiamo ancora?
“Non c’è speranza che spiova – fa Adriana, la toscana– non vedete che c’è la gallozzola?” Gallozzola? E che sarebbe “‘odesta ‘osa?”. “Oh, bellina, l’è che c’è la galla, ‘un vedi? “ … galla? Gallozzola? Certo che il dialetto toscano è ben colorito!
“Ma che dialetto e dialetto, l’è italiano perfetto questo”. Non mi convince, ma lascio perdere. Nel tardo pomeriggio, al rientro a casa dopo i festeggiamenti di rito, Adriana mi telefona baldanzosa: “ Guarda nel Dizionario Treccani se l’è italiano o dialetto, bellina!”.
In effetti il vocabolario la riporta. Ci resto un po’ male, come insegnante di Lettere sono caduta in castagna, ma ingoio la pillola.
Qualche giorno dopo sono in treno per Verona, stracolmo di gente. In uno scompartimento pieno di inglesi c’è un posto occupato da una borsa, domando se è libero. Mi fanno posto. Mi siedo.
Gli inglesi parlano tra loro, naturalmente in inglese, ridacchiano, ogni tanto dicono “italians” “italians”, certo ci prendono in giro o mi prendono in giro.
Sono imbarazzata, non capisco niente di quello che dicono e non so perché mi torna in mente la gallozzola di Adriana.
Gallozzola! Che parola simpatica! Quante cose potrebbe significare! Gli inglesi così pragmatici certamente non ce l’hanno una parola come questa.
Così prendo la gallozzola e ci gioco facendola ruzzolare qua e là come una palla, rigirandomela tra le mani, facendola rimbalzare a terra o sulle pareti dello scompartimento e, siccome mi diverto con tutto quello che mi viene in mente, per darmi un contegno prendo carta e penna e registro.
Gallozzola! Ti fa pensare a gallo, gargarozzo, gozzoviglia, disordine, pasticcio.
Si potrebbe dire: – questa stanza è tutta una gallozzola - che bella gallozzola mi avete combinato! Oppure, pensando a un godimento: - Ho provato una gallozzola!- e ancora – non mi rompere le gallozzole – lascialo nelle gallozzole sue – non ho capito una gallozzola – mi sono sentito proprio una gallozzola! – fatti le gallozzole tue! – oggi non ho combinato una gallozzola! – ma che gallozzola vuoi? – mi fanno male le scarpe, ho una gallozzola nel piede – ho mangiato piccante e mi è spuntata una gallozzola sulla fronte! E ancora … ACCIDENTI ALLA GALLOZZOLA!!!
Gli inglesi intanto smettono di ridere, di fronte a una persona che scrive si avverte sempre un po’ di rispetto (o una certa gallozzola?). Se una parola così ce l’avessero loro potrebbero dire: hai visto che bella gallozzola verde pisello ha in testa oggi la nostra regina? E che stroncatura sarebbe se dicessero: -Al ricevimento c’era anche il principe Carlo con quella gallozzola di Camilla – Oppure in riferimento al tampax che avrebbe voluto essere Carlo: - “My Darling, vorrei stare dentro di te come quella gallozzola!”- Sarebbe da ridere anche sentirli dire: - “Per la gallozzola della regina!”
Certo, tutte stupidaggini. Mio marito mi ripete sempre: “Nella vita contano solo i fatti, non le parole!”. Io dico che ha ragione, ma ogni tanto anche una gallozzola aiuta a vivere!
di Carla Paoloni - da “Cammin facendo …”
**** O ****
Alle mie amiche Camminatrici
Di prati e boschi pei sentieri vanno
e lungo i fiumi ad ascoltar le voci
che a fiori ed erbe la natura diede
quale balsamo silente degli affanni.
Per prati e boschi in amicizia vanno
con lo sguardo rivolto all’orizzonte
dove infinito si intravede il sogno
che azzurrità a lor giovinezza diede.
Vanno e dolcezza i loro cuori invade
dolcezza amara di nostalgia profusa
potessero quei passi andare indietro
a ritrovar la freschezza del mattino!
Intanto il fiume accanto a loro scorre
Indifferente a chi vi passa accanto
E sopra l’acqua trascorrono i pensieri
Le voci i volti i desideri i sogni.
© Carla Paoloni
**** O ****
Andavamo al ponte della ferrovia, nella campagna a pochi passi da casa, subito dietro la chiesa di San Rocco, a “vedere” la primavera nei pomeriggi di metà marzo quando il tiepido sole primaverile incominciava a scaldare la terra e le piante si riempivano dei germogli dei primi fiori.
Gli alberi di mandorlo erano i primi a fiorire. La Conca del Fùcino ne era piena e a fioritura completa, a chi l’ammirava da un punto leggermente rialzato, offriva lo spettacolo di un vastissimo manto rosa esteso a perdita d’occhio ai piedi del Velino ancora imbiancato di neve.
Il ponte della ferrovia si trovava in uno di questi punti a nord del paese. Andavamo lì prima papà, mamma e io, poi coi miei fratelli, a goderci gli albori della primavera dopo il lungo inverno. Eravamo ancora coi vestiti pesanti e dopo un po’ i calzettoni di lana mi scaldavano troppo i piedi e mi facevano sentire stanca. Papà allora mi prendeva sulle spalle e mi faceva toccare i rami degli alberi e staccare qualche ramo più basso, se era fiorito, da portare a casa come simbolo della bella stagione che avanzava. Quei rami rosa, fragili e delicati, col loro profumo rallegravano le stanze nei giorni ancora bui del tardo inverno e infondevano speranze nuove.
Così era al ponte della ferrovia, lontani dagli sguardi della gente che si scambiavano tenerezze, si tenevano per mano, sognavano il loro futuro insieme. Era un amore profondo quello che li legava l’uno all’altra, un amore pulito e romantico, mai involgarito da un gesto, una parola o uno sguardo fuori luogo. Papà si chiamava Giovanni, ma mamma nei momenti di tenerezza lo chiamava “Zuanì”, come nella poesia del Pascoli. Era un suono più dolce che ben si adattava ai pensieri che dedicava a lui e con cui sottolineava le foto che gli donava perché portasse sempre con sé la sua immagine. In una, sopravvissuta al tempo, mia madre compare in mezzo ad un giardino fiorito, in pantaloni bianchi, con un corpetto scuro plissettato e i capelli sciolti mentre appoggia un violino sulla spalla sinistra come se suonasse. La dedica recita “Per il mio Zuanì suono la più bella canzone d’amore”.
(nella foto i miei genitori giovani)
Il nome di mia madre era Natalina, perché era nata il giorno di Natale, ma papà la chiamava “Noelina”, un francesismo che sostituiva in modo armonioso il nome “Lucia” di una canzone all’epoca molto famosa, la “Canzone dell’amore”, che papà cantava dedicandola a lei. “Solo per te, Noelina…va la canzone mia…” era il motivo ripetuto spesso durante quelle passeggiate primaverili e il ponte della ferrovia in mezzo a tanta campagna, sembrava un occhio vigile, protettivo, quasi imponente così lontano da ogni contaminazione umana.
I mandorli all’epoca alimentavano una parte dell’economia della zona, perché fornivano mandorle dolci ma soprattutto quelle amare importanti per l’industria farmaceutica, nonché per quella dolciaria e dei liquori. Con le mandorle dolci si producevano i “nocci atterrati”, i croccantini, le mandorle salate e le ferratelle, una specie di gallette di pasta dolce né troppo tenere come le gauffres francesi né dure che, accoppiate e farcite con un impasto di mandorle, noci e miele costituivano la prima colazione ideale nelle fredde giornate d’inverno. Le mandorle amare venivano utilizzate anche per gli “amaretti”. Erano famosi nella zona gli amaretti di Avezzano perché soffici e morbidissimi sotto i denti, con un gusto perfettamente equilibrato tra il dolce e l’amaro, un amalgama perfetto di mandorle dei due generi, triturate e affogate in un battuto di albumi, zucchero e succo di limone, con l’aggiunta di un solo pizzico di farina. Il segreto della loro morbidezza consisteva proprio nella quasi totale assenza di farina e da un punto di cottura preciso che solo le cuoche più esperte conoscevano.
Le mandorle si raccoglievano in autunno, ma a fine agosto, prima che maturassero e il loro guscio divenisse duro, noi ragazzi andavamo in campagna in bicicletta a raccogliere le “mandorlicchie”, i frutti ancora acerbi dal guscio tenero e dolce. Le facevamo cadere a terra scuotendo i rami, lanciando sassi o battendole con un bastone. Se eravamo in tanti uno di noi, più agile e intraprendente, saliva sull’albero e abbassava i rami in modo che potessimo scegliere quelle giuste con la buccia ancora fresca e non troppo pelosa. Mi piaceva tenere in mano quei frutti setosi, spezzarli in due con i denti prima di masticarli e osservarne la polpa verde intenso in corrispondenza del guscio, più chiara, quasi bianca e lattiginosa all’interno dove era custodita la mandorla. Ne facevamo scorpacciate di “mandorlicchie”. I nostri genitori non volevano che andassimo da soli in campagna e soprattutto che mangiassimo quei frutti acerbi perché temevano dissenterie e mal di pancia, ma mai qualcuno di noi ha sofferto dopo quelle scorpacciate.
Da adolescente tornavo spesso da sola al ponte della ferrovia a cogliere qualche ramo fiorito e portarlo a casa. La presenza di quei fiori rendeva meno pesanti le ore di studio e il loro profumo mi faceva sognare un futuro in cui avrei realizzato tutti i miei desideri che allora erano solo vaghezze.
I rami del mandorlo restavano fioriti solo pochi giorni, mentre il colore dei fiori scoloriva presto dal rosa intenso al bianco e si doveva fare attenzione a non sbatterli troppo, altrimenti cadevano subito. Mi colpiva l’assenza di foglie che spuntavano dopo, numerose e sottili, a rendere ancora vitale un ramo nodoso, che sembrava arido e vecchio.
Al liceo, durante le lezioni di greco, avevo conosciuto che nell’antica mitologia il mandorlo era il simbolo dell’amore: spuntava a primavera, la stagione delle speranze e degli amori, attraeva con la delicatezza dei suoi fiori e la dolcezza del suo profumo, sfioriva presto come la giovinezza. La leggenda raccontava della bella Fillide che si era uccisa nel timore di essere stata dimenticata dal suo innamorato trascinato lontano da una guerra e che, per compassione, da Atena era stata trasformata in mandorlo. I fiori sarebbero spuntati come una nuvola dalle lacrime di Demofonte, l’innamorato tornato troppo tardi, che, nell’apprendere la tragica notizia, era rimasto giorni e giorni abbracciato a quei rami piangendo disperatamente. In forza di questa leggenda in qualche paese addirittura ricavavano filtri d’amore dai suoi fiori.
Da adulta dopo anni di assenza dal mio paese sono tornata in quei luoghi. Ho stentato a riconoscere il ponte della ferrovia in mezzo ai tanti palazzi, ville e giardini che vi sono sorti intorno e di cui si sente abbellita la città. Il ponte che allora appariva importante oggi sembra così piccolo che quasi scompare alla vista e nel contesto è totalmente insignificante, soffocato dalle erbacce, dai sassi abbandonati a ridosso delle strade e delle case che vi sono state edificate intorno. I mandorli hanno ceduto lo spazio ai caseggiati, alle macchine, al traffico, alle fabbriche sparse qua e là in tutta la Conca, tra cui giganteggia una multinazionale che produce componenti per computer, che ha portato la modernità e tanta gente nuova dai volti e usanze straniere: cinesi, giapponesi, nordafricani. Sono sorte strade nuove, ristoranti, multisale cinematografiche. La vallata è diventata grigia, disordinata e squallida. Il Velino campeggia ancora sovrano sulla Conca, allarga le sue braccia possenti, quasi protettive sulla città, ma ha perso quel mantello rosa vasto quasi quanto tutto il Fùcino, che gli rendeva omaggio e un tempo era la sua bellezza. Gli amaretti non si fanno più in casa, si trovano nelle panetterie ma le mandorle che li rendevano pastosi sono diminuite mentre è aumentata la presenza di farina, a scapito della morbidezza originaria. Anche loro hanno perso la soavità, la genuinità e il profumo di un tempo.
Così ogni volta me ne torno delusa nel mio mondo attuale, al nord, lontana dalla mia terra d’origine e quando mi sento sola, per consolarmi chiudo gli occhi: rivedo i miei cari, la mia casa di allora, risento le voci note, la carezza del vento e dell’aria frizzante sul viso e il cuore sussulta, al profumo dei mandorli in fiore.
(da I fiori del mandorlo di Carla Paoloni, 2011)
La sirena dei pompieri
Il suono stridente della sirena dei pompieri squarciò la cappa di silenzio che avvolgeva di noia quel grigio pomeriggio autunnale.
Non era usuale che mi trovassi sola a casa dei nonni, normalmente mi fermavo a salutare la nonna, che non usciva quasi mai di casa, alla fine della scuola. Lei mi sorrideva felice e mi accarezzava lisciandomi i capelli con le dita e sistemandomeli a ciocche dietro alle orecchie, un gesto che mi infastidiva, ma che tolleravo perché veniva da lei. Mi chiedeva della scuola, dei miei fratelli e di mia madre. Se aveva ricevuto qualche lettera dalla Sicilia, mi leggeva le notizie sui parenti, sul figlio che era rimasto laggiù e mi mostrava le foto, specie quelle di mia cugina Elvira che pensavo fosse la sua prediletta, visto che ne portava il nome e con me parlava con entusiasmo sempre e solo di lei .
Mio nonno Angelo lo incontravo più di frequente in piazza che discorreva con gli amici, sempre elegantissimo in un doppiopetto marrone gessato e il cappello, pure marrone, di feltro a larghe falde.
Era un ometto piccolo, snello, dalla testa tonda con radi capelli bianchi e un paio di lunghi baffi brizzolati che arrotolava sulle punte con le dita.
Quando gli andavo incontro allargava le braccia e mi stringeva a sé con le mani rugose che odoravano di tabacco ed esclamava: “Bacio le mani, nuzzendedda!”. Poi infilava una mano nella tasca della giacca e ne tirava fuori un paio di caramelle d’orzo, senza carta, che a me piacevano molto. Erano dolcissime e odoravano anch’esse di tabacco perché in quella tasca erano conservate le cartine per le sigarette e il tabacco per la pipa.
Tutto qui il rapporto tra me e loro.
Di mia nonna ricordo anche quella mattina di luglio quando, tenendomi teneramente per mano, mi condusse a casa a conoscere il mio nuovo fratellino Corrado, una mattina luminosa dall’aria fresca e profumata che, se chiudo gli occhi, risento leggera sulla pelle e mi sembra di respirarne ancora la brezza. Ricordo pure che una volta mi portò in carrozza e che le ridevano gli occhi mentre mi raccontava che da bambina viaggiava sempre in carrozza con suo padre, un principe calabro molto ricco, che viveva in un palazzo grande come un castello e che, quando passava per le sue campagne, tutti salutavano togliendosi il cappello in segno di riverenza.
Era una donna minuta mia nonna Elvira, vestita in modo quasi dimesso, semplice, sempre sui toni del grigio, senza ricercatezze, ma pur nella sua semplicità aveva qualcosa di elegante nel portamento e nei modi gentili, naturali, mai forzati, da cui trapelava un’ innata sensibilità d’animo e una indubbia nobiltà di sentimenti. Piccola di statura e di corporatura snella, nonostante i suoi settant’anni, aveva tutti i capelli neri, quasi corvini, solo una piccola ciocca bianca le incorniciava la fronte. Li portava lunghi fino alle orecchie e sciolti, raccolti da un fazzoletto annodato dietro alla nuca, grigio anch’esso come il vestito. La carnagione era chiara e il volto pieno di rughe, ma illuminato da due occhi azzurri come il cielo, sempre sorridenti e sereni, mai attraversati da una nube, pur nelle avversità.
Di lei da adulta, tanti anni dopo la sua scomparsa, mi è stata narrata a voce bassa, una storia non so fino a che punto rispondente alla realtà: sarebbe stata davvero la figlia di un principe, ma una figlia illegittima. Suo padre, il principe, avrebbe ripudiato la moglie per sua madre, la donna di cui si era perdutamente innamorato e che aveva portato a vivere con sé nel suo palazzo nobiliare insieme alla figlia, mia nonna, che era nata da quella relazione. Dopo anni di convivenza felice, quando tutte le pratiche erano quasi pronte per legalizzare la situazione, improvvisamente morì d’infarto mentre in carrozza percorreva il viale in salita dall’ingresso della sua tenuta fino al palazzo padronale. La vendetta della moglie tradita, unica legittima sposa agli occhi della società e dello Stato, colpì le due donne che furono allontanate per sempre dal palazzo e costrette ad emigrare in Sicilia, presso parenti, per crearsi una nuova vita lontana dai sussurri maligni della gente.
Era una storia di cui non avevo mai avuto sentore, né mai ne era stato fatto un accenno benché minimo da parte di mia madre o altri parenti, una storia che forse si voleva dimenticare, sentita come una macchia nella famiglia e un cattivo esempio per i figli e i nipoti, che avrebbe potuto giustificare eventuali condotte trasgressive. O forse più verosimilmente perché finché non si è avanzati nell’età, finché non si è vissuta sulla propria pelle l’esperienza della vita e del tempo che inesorabilmente divora le esistenze e ne cancella i volti e le storie, non si ha interesse per il passato, per la vita di chi ci ha messo al mondo e di chi ci ha preceduti. Si pensa che i genitori, specialmente i nonni, siano nati vecchi, siano sempre stati come li vediamo oggi, senza una vita precedente, senza sogni, speranze, delusioni, senza i corpi snelli, giovani, pieni di vitalità e di avvenire propri della giovinezza. Come se fossero soggetti neutri, asessuati, senza passioni o sentimenti.
Quel pomeriggio però i miei nonni mi apparvero in una luce nuova, inusitata.
La sirena dei vigili del fuoco continuava a suonare, intermittente, insistente, sempre più vicina, finché non si arrestò proprio sotto le finestre della cucina dove noi tre trascorrevamo il pomeriggio in silenzio, ciascuno con le proprie occupazioni: io con un libro in mano studiavo, mia nonna preparava la minestra per la sera davanti alla stufa già accesa, mio nonno era occupato a costruirsi una sigaretta. Aveva disteso la cartuccia bianca sul tavolo di marmo, vi aveva depositato un po’ di tabacco sprimacciandolo con le dita e, dopo averla arrotolata massaggiandola in modo da distribuirvi equamente il tabacco, era intento a leccarne i bordi per sigillarla pregustando il piacere di fumarsela.
Al suono della sirena un lampo di gioia gli attraversò lo sguardo, posò la sigaretta sul tavolo, si affacciò alla finestra chiamandomi ad ammirare i pompieri che, in tenuta d’ordinanza, casco in testa, srotolavano frettolosamente il tubo della pompa per l’acqua. Doveva essere scoppiato un piccolo incendio negli scantinati della scuola di fronte, che fu subito domato.
Passata la curiosità mio nonno, allegro, avvicinandosi alla moglie incominciò a cantare “… viva i pompieri di Viggiù che, quando passano, i cuori infiammano, con i pennacchi rossi e blu, viva i pompieri, viva i pompieri di Viggiù…”.
Mia nonna contagiata dall’allegria seguì quel canto e il marito che l’abbracciava, animato da chissà quale ricordo felice sepolto per tanti anni nel cuore e all’improvviso riacceso da quella canzone e dalla vista dei pompieri. Mio nonno la baciò sulla guancia e la trascinò in una danza vorticosa, mentre io li guardavo stupita da quell’insolita manifestazione di affetto e confidenza tra loro.
Nonna a un certo punto si slegò dall’abbraccio del marito e tremante d’emozione, mezzo in italiano e mezzo in siciliano, mi disse: “Nuzzendedda, ti faccio sèntere una cosa bedda: una mia poesia! La tengo sempre con me e se mi sento smarriàta, la leggo e mi dà gioia. Mi pare di vidìri ancora la bedda Sicilia e la mia casa… però, nuzzendedda, non ne facesse parola con nessuno, un segreto tra noàutri deve rimanere…”. Infilò una mano nella tasca del grembiule, che portava sempre addosso, lunga fino quasi al ginocchio, frugò tastando con le dita, poi tirò fuori un foglio di carta consunto, ripiegato in cento pezzi, lo dispiegò e lesse.
Era una poesia d’amore in dialetto siciliano, non ne ricordo il titolo, so che mi piacque e commosse. Forse per l’emozione con cui la leggeva mia nonna, per i suoi occhi pieni di lacrime, per la nostalgia che esprimeva il tremore della sua voce, per i rimpianti di quei paesaggi lontani che avevano animato la sua vita, le illusioni e i sogni della sua giovinezza. Forse per l’amore che aveva provato e provava ancora per mio nonno. Parlava della Sicilia, dell’azzurro del mare, dell’Etna dalla cima innevata, dell’ odore degli aranci e del profumo delle zagare in fiore. Parlava soprattutto di due giovani innamorati che si guardavano tra i rami dei limoni.
Mio nonno, commosso da sentimenti che sembravano dimenticati, si inginocchiò allora davanti alla moglie, le baciò la mano e, con un inchino reverenziale, la invitò a ballare al ritmo di una tarantella intonata da lui stesso.
In mia nonna la commozione si tramutò subito in allegria. Una mano alla vita, l’altra sollevata in alto a simulare il gesto di chi suona il tamburello, si improvvisò ballerina.
Leggera come una piuma piroettava intorno a mio nonno che la seguiva con lo sguardo ammaliato e la assecondava nella danza con movenze leggiadre, continuando a cantare battendo ritmicamente le mani e i tacchi.
Volteggiavano seguendo il ritmo della canzone, in sintonia perfetta e io li guardavo stupita, come se assistessi al finale di un film.
Erano belli, giovani, leggeri e felici. Sembravano usciti da una fiaba: quella della principessa e il principe povero o di Cenerentola che perde la scarpetta fatata mentre balla col suo principe azzurro!
Gli occhi di mia nonna brillavano di una luce nuova. Era felice! Come se gli anni e le vicissitudini della vita fossero di colpo svaniti e per incanto fosse tornata ventenne, piena di speranza, come nel giorno del suo primo incontro con l’amore.
A ripensarci oggi, mi colpì un particolare che allora non capii appieno: una sottile vena sensuale che si intuiva nei loro gesti. A settant’anni e passa, e dopo ben dieci figli, erano ancora innamorati !
Sono morti poco tempo dopo, a distanza di un mese l’uno dall’altra. Prima mia nonna, in una fredda mattina di febbraio, nel ’56, quando nevicò per tre giorni di seguito e il paese era seppellito da due metri di neve.
Mio nonno era a letto in un’altra stanza quel giorno, immobilizzato da una paralisi che lo aveva colpito una settimana prima. Nessuno gli comunicò la scomparsa della moglie per timore che il dolore gli provocasse un altro ictus fatale o rendesse più penosa la sua malattia.
Mentre passavo per il corridoio si accorse di me e mi chiamò: “Nuzzendèdda, unn’è Elvira? Cu fu?”.
Che fu? “Niente” gli risposi sulla soglia della porta, trattenendo le lacrime e sforzandomi di fare una voce normale per non tradirmi. Niente, non era successo niente. E fuggii fuori ,di corsa, all’aria aperta. Sotto la neve. Per non piangere.
(da I fiori del mandorlo di Carla Paoloni, 2011)
**** O ****
VIAGGIO IN TRENO
Alla stazione Termini il treno arriva in ritardo, perdo la coincidenza col rapido delle tredici, mi toccherà aspettare il prossimo locale delle quindici, pazienza, arriverò più tardi a casa. Però sono contrariata: i locali su quella linea fermano ogni dieci minuti, tante piccole stazioni...Salone, S. Polo dei Cavalieri, Mandela Sambuci....Sante Marie. Vanno a rilento, sbuffano, sbattono, ti scuotono e puzzano. Puzzano di disinfettante, di gabinetto, di fumo, di mele marce, un odore acre che si attacca ai vestiti e alla pelle.
Nell’attesa mi avvio verso un bar per mangiare un boccone.
La stazione è zeppa di gente stanca, sdraiata qua e là sulle panchine, con le valigie ammucchiate negli angoli.
Carrelli trasportatori passano tra la gente. I conducenti per farsi strada suonano il clacson che fa un rumore secco e sordo. Brontolano, parlano tra loro ad alta voce, rimproverano la folla che intralcia il passaggio.
Uscendo dalla zona binari, accedo alla galleria che mette in comunicazione via Giolitti con via Marsala, un corridoio ampio, dal soffitto alto formato da una vasta intelaiatura in ferro e vetro che dà luce al grigiore della stazione.
E’ tutto un via vai di gente: viaggiatori di corsa con valigie pesanti, in gran parte stranieri, studenti che ritornano ai paesi vicini dopo le lezioni o gli esami, gente che aspetta qualcuno.
Ricordo che una volta, negli anni sessanta, la galleria era piena di negozi. Passavo di qui quasi ogni giorno per andare all’ università. Era questo il tratto che percorrevo dalla fermata del 12 in via Giolitti, a volte di mattina presto. Era pieno di prostitute già alle sette del mattino.
In fila come passeggeri in attesa davanti alle vetrine, camminavano su e giù dondolando le borsette come segno di riconoscimento, anche se non ce n’era bisogno perché si vedeva lontano un miglio che mestiere facevano. Alcune erano grasse, ridondanti. Tutte comunicavano un qualcosa di sfatto, dai visi stanchi, dal trucco pesante. Indossavano gonne eccessivamente strette che mettevano in evidenza le forme. Qualcuna era stracarica di gioielli, collane d’oro, bracciali vistosi. I clienti si avvicinavano spudoratamente, contrattavano il prezzo.
Io, sia quando andavo all’università per le lezioni che quando arrivavo la domenica sera in treno, attraversavo quel tratto di corsa, imbarazzata, con il volto rivolto verso i binari per non guardare.
A volte captavo qualche discorso tra loro o coi clienti. Una sera sentii un vecchietto piccolo, magro, con un cappotto lercio, lungo fino ai piedi, che borbottava dispiaciuto “Cinquantamila lire, che prezzi!”.
Cercavo sempre di filare via dritta e di non guardare, invece mi guardavano loro, le prostitute e gli uomini loro clienti. Se mi fermavo in attesa del tram o di qualche amica, si avvicinavano viscidi, facevano proposte oscene.
Oggi sembra sparito quel mondo, niente più donnine in giro, niente più negozi.
La stazione è sempre grigia, ma ha un’aria meno torbida.
I negozi si sono trasferiti nei sotterranei, belli e illuminati a giorno. C’è anche una grande libreria e uno spazio per l’orchestra che a orari stabiliti allieta i viaggiatori.
Mi siedo nel ristorante al piano superiore, ordino un toast e un caffè.
Dalla veranda che dà su piazza dell' Esquilino ammiro il cielo di Roma, limpido e tenero come sempre, di un azzurro trasparente quasi rosato che suscita speranze e nostalgie, uno stormo di uccelli in volo, S. Maria degli Angeli in lontananza e resti di antiche mura.
Il caffè mi è servito velocemente. E’ buono, caldo e a buon prezzo, Roma non è una città cara.
Il treno delle quindici è pieno di gente, sono quasi tutti pendolari, impiegati nei vari ministeri che tornano a casa dopo il lavoro. Trovo posto in una carrozza di seconda classe, un po’ antiquata. Un uomo di mezza età mi guarda a distanza, sento il suo sguardo addosso.
Anch’io lo guardo, qualcosa in lui mi attrae, ma non so cosa.
Sta parlando con due donne sedute di fronte, forse colleghe d’ufficio che non vedo in viso perché siedono di spalle. Mentre parla ogni tanto butta gli occhi su di me, e non a caso. Ha un vestito blu, capelli brizzolati, sul biondo, corpo snello, spalle larghe, naso ossuto, imponente e un sorriso sornione e accattivante.
Forse l’ho già visto da qualche parte, ma non ricordo dove né quando.
Il treno si avvia, lento e maleodorante.
Ho percorso tante volte questa strada specialmente quando frequentavo l’università, per gli esami, per le lezioni, col cuore palpitante. Il paesaggio mi è familiare e non è cambiato molto da allora...le cascate di Tivoli, l’odore di uova marce di Bagni di Tivoli, Arsoli, il castello, i boschi. Mio padre quand’ero bambina mi segnalava tutti quei luoghi, ogni volta, anche per distrarmi dalla nausea che mi prendeva sul treno...“attenta, dopo la galleria compariranno le cascate. Le vedi? ...oppure...Senti che puzza di uova marce, siamo a Bagni di Tivoli, ancora dieci minuti e arriviamo a Roma“.
Che nostalgia dei tempi in cui c’era ancora la mia famiglia e di quelli spensierati della scuola, del liceo, il liceo Torlonia dal nome del principe. Martinelli il bidello aspettava che arrivassi io la mattina per chiudere il grande portone di legno. Ero quasi sempre in ritardo. A volte mi accompagnava mio padre sulla canna della bicicletta, perché percorreva la stessa strada per andare in ufficio.
I miei compagni di liceo non li ho più rivisti da quando mi sono laureata, sposata e trasferita altrove: Giuliano, lo scanzonato al quale per sbaglio finivano spesso i miei voti (che erano migliori dei suoi!) poiché in elenco veniva appena prima di me, Alberta, l’elegante, dal collo lungo alla Modigliani, Giulio che veniva da Carsoli in treno tutte le mattine. Si portava mezza pagnotta di pane di grano di quello che facevano in casa una volta, tagliata nel mezzo, con due etti di mortadella per companatico. Incominciava a rosicchiarla di nascosto, sotto il banco alle otto di mattina appena entrato in classe e finiva all’una, quando terminavano le lezioni.
Il momento dell’intervallo era il più impegnativo: se ne stava in silenzio a masticare, piano piano col viso immerso in mezzo a quella grossa fetta di pane che nemmeno gli si vedeva il naso e continuava imperterrito senza guardare in faccia nessuno. Era la sua unica applicazione durante tutta la mattinata, o almeno così pareva.
Era un bel ragazzo alto, ben piazzato, con un largo sorriso innocente. Mi guardava dall’alto del suo metro e novanta, dall’alto della sua pagnotta, del suo naso prominente e mi sorrideva sempre con simpatia. Mi sembrava che avesse quasi un debole per me. Avrebbe potuto piacermi, chissà!
Il treno prosegue la sua corsa sbatacchiandomi qua e là.
Forse ho preso un posto in corrispondenza delle ruote e sento di più gli sbalzi.
Passiamo Tivoli, le cascate non si vedono, le avranno chiuse.
Apro la borsa, vi frugo dentro, tiro fuori gli occhiali e una gomma da masticare. Accavallo le gambe, apro un giornale e leggo.
L’uomo dal sedile in fondo allo scompartimento mi guarda, a tratti con la coda dell’occhio, a tratti più intensamente, mentre conversa con le due donne di fronte. Ricompongo le gambe, abbasso la gonna tirandola bene sulle ginocchia: non vorrei che mi giudicasse sfacciata.
Ad Arsoli le due donne scendono, lui le saluta cordialmente. Restiamo soli nello scompartimento, lo osservo con la coda dell’occhio: non vorrei che prendesse iniziative imbarazzanti. Lui apre la sua grossa borsa di pelle, ne tira fuori un fascicolo, lo sfoglia distrattamente. Ogni tanto mi lancia uno sguardo. Che vorrà mai? Forse l’ho conosciuto da qualche parte, in qualche ufficio o è attratto da me? Se gli piaccio, perché non si fa avanti, perché non cerca di attaccare discorso come fanno gli altri?
E’ un bell’uomo, potrebbe piacermi, ma sento che tra noi non c’è attrazione sessuale, è qualcosa di diverso, che viene da lontano.
Vorrei parlargli e forse anche lui lo vorrebbe, ma non ne abbiamo il coraggio.
Ripiego il giornale, l’appoggio sul sedile a fianco e mi distraggo leggendo la pubblicità sulle pareti del treno … o i numeri dei posti a sedere 41, 43, 45 e di fronte 42, 44, 46...
Il mio compagno di viaggio non mi guarda più, è compreso sul suo fascicolo, sul suo lavoro, ha perso le speranze.
Forse io l’ho guardato per prima e come succede con gli uomini s’era fatta qualche idea, poi, vista la mia indifferenza, l’ha abbandonata.
Sotto una galleria mi vedo riflessa sul vetro del finestrino, quasi non riconosco la mia immagine: non trovo piu’ quel volto regolare, quelle labbra carnose di un tempo in cui mi piaceva ammirarmi. Mi sento stanca, la testa mi ronza, prende il ritmo del treno, un senso di nausea mi sale dallo stomaco.
Arriviamo a Carsoli.
L’uomo si alza, raccoglie il fascicolo nella borsa di pelle, indossa l’impermeabile, si avvia all’uscita.
Prima di scendere si volta verso di me, mi guarda ancora una volta.
Anch’io lo guardo, ma gli occhi non si incontrano, non si riconoscono.
Il treno si ferma, i passeggeri scendono.
Lo vedo di spalle che si allontana nel suo impermeabile grigio, con la borsa di pelle nella mano destra. Cammina piano, solo. Si avvia verso una strada in salita.
Il treno riparte lentamente. Guardo dal finestrino e mi soffermo, ormai tranquilla, sulle sue spalle dritte, ben delineate, sui capelli lisci un po’ brizzolati, ma ancora biondi. E all’improvviso, da un’ansa dimenticata della memoria, a quell’immagine reale se ne sovrappone un’altra non più esistente. E’ una sagoma analoga: stessa altezza, stessa attaccatura di capelli, però più biondi, stesse spalle, ma meno stanche, stessa andatura, stesse mani.
Le due sagome coincidono perfettamente.
Lo riconosco finalmente! Ecco chi è quell’uomo: è Giulio, il mio affamato compagno di scuola!
Abbasso il finestrino, lo chiamo forte. Ma il treno e’ ripartito, già corre veloce e sprofonda rapido nel buio di una galleria.
© Carla Paoloni
**** O ****
Non chiamatele “poesie”
IN UN BALENIO DI LUCE
Veloce
In un balenio di luce
se n’è andata
la nostra giovinezza distratta
ovvia come l’acqua
al gorgoglio del ruscello
o il soffio
fragile del vento nell’aria.
Ora giace
Sepolta nel buio
all’ombra di un ricordo
sperduto
nell’angolo remoto
di una vena
nell’attimo di un sogno
nella notte
dove solitaria
si dilegua
in un singhiozzo
l’ultima goccia.
23/05/2011
Carla Paoloni
**** O ****
A YARA
Tredici anni
Tornavi tranquilla a casa
dalla palestra
scarpe da ginnastica
zaino in spalla
Un bruto ti ha presa a tradimento
trasportata chissà dove
e ti ha uccisa.
Perché?
Dov’era Dio
in quel momento?
perché non ha fulminato
la mano assassina?
Dov’era Cristo
con la Sua umanità
dov’era la Sua mamma celeste
e tutti i santi?
Forse si erano coperti gli occhi
impotenti
per non vedere
il tuo sguardo di terrore.
Si erano tappate le orecchie
per non sentire
i battiti del tuo cuore impazzito
di fronte all’abisso nero
che ti si è spalancato davanti
all’improvviso
nella scoperta dell’orrore.
Loro, i santi, guardavano altrove
davanti al tuo grido disperato
alla tua invocazione di aiuto.
Tredici anni, una bambina
sorridente, serena, innocente.
Ma eri una donna, una preda
una selvaggina da cacciare
per sfamare l’atavica sete
di possesso del maschio
istigata dal commercio del mondo
che vende e guadagna
con le lusinghe di corpi di donne.
Tredici anni, una bambina
innocente
travolta dal male del mondo
nell’indifferenza di tutti.
L’umanità finirà mai di pagare
un tale delitto?
27 /02/2011
Carla Paoloni
**** O ****
POESIE
Le poesie sono parole
Parole spiegate
Con altre parole
Parole
per dire cosa?
Parole per spiegare cosa?
L’intimo sussulto
Che intuisce la bellezza
L’attimo di dolore
Che scopre la verità
1/10/94
CARLA PAOLONI
**** O ****
NEL MIO VOLTO
Nel mio volto
Le pieghe del tuo volto
Nelle mie mani
I segni delle tue mani
Nei miei piedi
L’impronta dei tuoi piedi
E nel mio cuore, mamma,
La tua malinconia.
25/09/94
Carla Paoloni
**** O ****
AD UN MIO ALUNNO
Quando ti ho conosciuto
eri come un fiore
appassito
prima di sbocciare.
O una testuggine
spaurita
rinserrata
nella sua corazza.
Poi insieme
abbiamo trovato la strada
e sei uscito fuori
dal tuo guscio.
Da me hai avuto
la fiducia che cercavi
da me hai avuto la certezza
di poter andare.
A me hai dato
il coraggio di credere
la forza di continuare.
Grazie, ragazzo.
Carla Paoloni
**** O ****
ritorna all’angolo letterario
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