Sacile
Da “EQUAZIONE D’AMORE” Samuele Editore
Identità
Steso sul letto bianco
più bianche ancora le mani
rami bianchi senza ombre
rifrange dagli occhi
il suo sguardo di vetro
eco di remote risonanze
balzato dalle sbarre regolari del letto
un po’ corrose, fredde
Non capisco quella sua felicità soffusa
quell’agitazione leggera
posata sul sudore freddo del viso
impastato ai pori dilatati della pelle
nell’incavo grigio delle guance
Ma il velo delle labbra si apre alle parole timide
sussurrate a fatica
quasi con pudore
“Oggi il medico è passato
e mi ha chiamato per nome!”
I sassi chiamano
Viene da lontano
il richiamo dei sassi
Dai piedi nudi della giovinezza
dentro il trasparente freddo del torrente
sopra i muschi delle pietre
rotolate dalle piene
anche ai margini dell’ombra
dove profumava carezza
umida di ciclamini
Dai sentieri sterrati
bianchi di buche e di sassi
tra fiori di rovi allungati
Dai muretti a secco
all’ombra magra delle lucertole
o dalla ruvida casa
pietra su pietra di montagna
Dal mistero pieno
dello roccia calcarea infilata nel cielo
insieme al silenzio del tempo
Sassi come alberi sacri con dentro nascoste
le verità e le fatiche del mondo
Sassi che mi fanno sentire a casa
Preghiera infine al masso nodoso
che vorrei chiedere alla montagna in prestito
da posare per me domani sull’erba del riposo
Da I POETI CONTEMPORANEI Pagine Editore
Pietre sepolcrali
Sole vuoto
svanito quietamente tra i ciuffi d’erba
e frammenti d’insetti sulle lapidi
in silenziosa attesa
Sepolcri con lo sguardo che riposa
di poco rialzato sulla pianura
accanto l’antica chiesetta abbandonata
divorata dalle crepe
irretite sulle vecchie mura
Stessi nomi per quasi tutto il paese
un’unica grande famiglia che pare morta insieme
lasciando vuoto la piccola contrada
di gradini e portici attorcigliati
in radiche di erbe selvatiche
portate nel cuore lontano
dagli emigranti
Lì cercare l’altra vita
la storia distesa sotto la pietra
che ora appare più chiara
Solo vento sulle foto sbiadite
e sugli epitaffi dal parlare antico
Eppure è pace quella che provo
ora stemperata dalla brezza
nel silenzio che rinserra la pace d’autunno
Il tempo fermato da un lungo sospiro
nel Campo divenuto Santo
mentre la melodia di un passero
si regala
Da I FIORI BLU Lithostampa Editore
Quello che le donne dicono
Foto resa grigia dal tempo:
appena accennato sulla credenza
il sorriso di nonna sposa al suo soldato
lava panni alla fontana, grembiule nero, lungo
capelli di neve in treccia raccolti.
Sotto sul ripiano l’ agenda dell’anno nuovo
sbalzata in corpi dalle curve perfette
unghie rosse e labbra di miele
donne d’affari che parlano
di diritto e di maschilismo.
Sorrido: diversi i linguaggi
ma perché dentro la pelle
ci leggo la storia di sempre?
Segreta anche quando si spoglia
lei ancora si racconta nella curva del seno
senza sperdere invito all’esplorazione.
Reinventa il mondo se lo vuole
e sa cambiar pelle per amore
e mistero sublime porta dentro
lei il segreto della vita…
Conscia del mio femminile
godo del mio esser donna
seppur annodo facili lacrime
o se la grazia non sa sostituire la forza.
Ma con te, uomo, brividi di vuoto e di pieno
da respirare altrimenti, con te, uomo,
divenire nulla più del tuo complementare!
I morti non mentono
I morti non mentono.
Li vedo ad uno ad uno
paese mio tutto di giovinezza
in foto su lastra di marmo.
Lo saluto solo ora quel viso
passando veloce davanti ai crisantemi:
a me si presenta senza nome e cognome.
Racconta la sua verità ora
che bestemmia e parola dolce
si placano di pace.
La vita vissuta così: in partenza
tra sirene al porto, fischio di treni
e ponti dove passa la vita.
Confusi appetiti e tormenti
tra mimose di primavera
il sogno delle fronde,
insieme al dolore del perdersi
quando le ali diventano
troppo grandi per volare.
“Sempre in noi vivo” le parole scritte dai vivi…
Mi dicono che tu l’hai ghermita la vita
e che un po’ d’immenso te lo sei preso.
Le stesse verità nelle bugie dei vivi:
non mi posso fermare per la morte
sarà lei per me a fermarsi
raccontando ad altri la mia verità.
Una presenza la morte da affogare con la vita.
DA QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO
(VI Ed. rassegna “La Scena della donne” con l’iniziativa “Quello che le donne non dicono”.
Acat il territorio dentro la scuola
Il suo visetto è ancora nitido davanti ai miei occhi: capelli biondi sempre un po’ spettinati, languidi e fondi occhi celesti che al solo guardarli sentivi bisogno di cielo, figura esile e minuta, una tristezza trasparente da tutto, anche da un semplice gesto della mano. Eccolo lì, mi ha visto, ha visto la sua insegnante passeggiare a Sacile davanti alla sua bancarella, preparata con cura per il “Mercatino dei ragazzi”, lungo Corso Garibaldi. All’improvviso la sua furia mi fa male, un male fisico anche se non sono addosso a me quei pugni rabbiosi, ripetuti, teneri e violenti insieme: quei pugni sono lamenti di animale ferito, sono segni di anima lacerata, il suo grido di rabbia.
“Vattene, vai via di qui, vattene a casa: lasciami in pace, vattene…vattene, hai capito?
Vattene e lasciami in pace”.
Parole e pugni sono rivolti ad un uomo barcollante, ancora giovane, in evidente stato di ubriachezza: è suo padre. Anche lui spinge suo figlio, con un sorriso quasi ebete stampato sul viso. Guardandoli capisco ora tutta la tristezza quotidiana di quell’esile ragazzino, capace di nascondere dietro l’indifferenza la sua storia e i suoi insuccessi scolastici. Lui, lo sento, non si vergogna tanto della gente che intorno gli ha fatto capannello, ma si vergogna soprattutto di me sentendosi quasi nudo.
Così aspetto un po’ che la situazione si normalizzi e poi mi avvicino al “mio” ragazzino, gli faccio una carezza sui capelli e cerco di parlargli più con gli sguardi che con le parole. Poi mi allontano, sentendomi quasi colpevole per la situazione che sta vivendo. “A domani”, gli dico con un filo di voce e lui mi guarda con occhi vergognosi e riconoscenti insieme.
Lui non sa quanti ragazzini ho visto nelle sue stesse condizioni e quanto ho cercato di lottare per loro, senza peraltro ottenere grossi risultati, perché era sempre la loro condizione a prendere il sopravvento: io potevo solo raccogliere tutto il loro disagio, tutta la loro rabbia, e sostenerli scolasticamente o parlare con i servizi sociali, quasi sempre al corrente della situazione. Qualche volta, sostenuta dal coraggio, avevo parlato anche con gli stessi genitori, affetti da alcolismo, ma non avevo ottenuto nulla se non dinieghi ed, a volte, anche male parole.
Quel biondo ragazzino non sa che da tanto tempo mi curo del problema facendo quello che posso: gli ho già preso un appuntamento con alcuni componenti dell’Acat di Sacile.
...
Come referente al “Progetto Salute”, ho scelto quindi di far entrare a scuola proprio gli ex alcolisti per raccontare le loro storie ai ragazzi…
Proprio alcune di queste persone, su mia richiesta, ora sono venute a scuola, sollecite, per parlare col mio biondo e triste ragazzino. Sappiamo tutti che non si può intervenire direttamente in quella stramba famiglia segnata da problemi e da difficoltà. Ma un dialogo può sempre essere utile!
Quelle deliziose persone lo accolgono con parole, con gesti, amore e tenerezza: sanno bene quello che succede nelle famiglie travolte dall’alcol!
Ascoltano le concitate e timide parole che a singhiozzo escono piano piano, quasi a liberare da pesanti catene…: io sono lì, silenziosa.
Loro ascoltano, confermano, confortano, danno speranza: possono parlare col papà e forse convincerlo a reagire. Non giudicano: cercano solo di capire.
Forse non potranno fare molto, ma certo un piccolo miracolo è avvenuto: quel biondo esile timido ragazzino non si sente più tanto solo: si è liberato di un peso….
Qualcuno sta facendo qualcosa per lui ed ha meno paura.
Le mie parole in versi a te dedicate portano stampato a fuoco il tuo bisogno di cielo:
Suo l’essere nudo di fronte al dolore:
capelli biondi sottili sempre un po’ spettinati,
occhi languidi e trasparenti
che al solo guardarli sentivi bisogno di cielo;
figura esile e minuta in trasparente tristezza.
Discosto dalla vista, piccolo e minuto
sul banco troppo grande,
rintanato dietro il compagno,
coglievo inferno e ribellione
e anche il negare continuo
di chi, abbrutito dall’alcool,
l’avrebbe dovuto solo amare…
Per arrivare a lui
a quel dolore mascherato dall’indifferenza,
calore e tenerezza in accoglienza di gesti,
ascolto prima di timide parole
poi il disagio, larabbia e il tormento raccolti…
Piccolo miracolo
quella porta aperta al silenzio
quel capire senza giudicare
la sabbia del suo deserto.
Ora sei grande
ma l’azzurro che trema dagli occhi tuoi
suda e gronda dolore
al mondo, alla vita, ancora e ancora
quando mi dici grazie
solo per quell’averti ascoltato.
INEDITO
Notte magica
Da tanto non tornava a casa. Casa per lei erano le montagne incastrate nel cielo, i pendii sovrastati dalle rocce sullo sfondo ed una vallata dalle molteplici tonalità di verde dove si erano costruite le sue radici, come pianta flessuosa e docile al vento: la voce dei nonni che alla sera mandavano a prendere l’acqua alla fontanella di fronte alla chiesa, il tramestio dai cortili dove le sere d’estate grandi e piccoli giocavano insieme trasmutando le diverse età in un unico fantasticare di idee, la voce dell’inverno che nelle piste ghiacciate vicino a casa risuonava dei brontolii degli adulti contro le slitte e il lucido ghiaccio tirato ad arte con l’acqua dai ragazzi. Il mondo degli adulti e quello dei piccoli, integrato in un universo composito dove anche lo scontro non usciva dai binari del rispetto e di una sana convivenza.
Ci tornava a casa lei, dopo anni di attesa con la speranza di ritrovare come balsamo al suo presente doloroso gli odori e i sapori che credeva dimenticati, in realtà relegati nei meandri delle tenerezze antiche e che ora, in occasione del Natale, tornavano a farsi sentire con una nostalgia struggente, quasi divorante, quella che viene dalla consapevolezza di un passato concluso, visto ora come il paradiso dell’Eden, anche nei dolori che pur avevano caratterizzato quell’età. Forse per questo le persone coi capelli bianchi ritornano sempre alla giovinezza, anche quando diventano smemorati per l’età: la giovinezza, la propria terra, quel vissuto come emblematico di tutta una vita…Un presente dai capelli bianchi e dalle rughe troppo intense ricucito agli anni della giovinezza, a certi suoi sentori ed atteggiamenti freschi di innocenza e di orizzonti immediati, che portano perfino a dimenticare l’intenso della maturità.
Quanto tempo… Il ruolo che ora ricopriva e che le era costato fatica e sudore aveva col tempo sbiadito i colori intensi delle stagioni di casa, aveva anche allentato i rapporti con la famiglia, anche se il ricordo di casa era come trasfigurato. Che bella casa sua e il ricordo la esaltava talmente da divenirne il dorato testimone: tutto era bello persino le finestre dai cui spifferi entravano folate improvviso di gelo e raggi di luna, acciaio tra gli spiragli dei balconi. Aveva deciso quel rientro spinta dalla voglia di vedere i genitori invecchiati con troppa fretta, ma anche per la magia evocativa della sua giovinezza. Quella era l’età della speranza, sulla soglia dell’attesa, il canto inconsapevole dei diritti, ora invece i problemi di carriera, la paura per il momento difficile che l’azienda attraversava ed anche il tormento sentimentale che da diversi mesi la attanagliava la tormentavano, scavandole dentro con maggior forza rimpianti e nostalgia. “Homo homini lupus”: questa era diventata la sua filosofia di vita, e l’espressione di Plauto ben si prestava alla qualità, meglio non qualità di vita, che stava vivendo. Così pensava: la stirpe umana è improntata dall'egoismo, per sopravvivere è disposta a diventare una fonte di dolore e pericolo per i suoi simili. L’istinto di aiuto sincero e disinteressato nell'uomo è ormai soffocato da esigenze egoistiche di sopravvivenza, dall'invidia dei beni altrui e dall'avidità per i propri. Quello era giusto il clima che si respirava nella sua azienda: quell’azienda che l’aveva vista in ascesa con ritmi di lavoro massacranti, a cui aveva sacrificato tutto, anche il calore di una vera famiglia. Era donna e doveva dimostrare il doppio, proprio perché era donna. Si era innamorata sì, ma il tempo era sempre poco da dedicare ai sentimenti e lui le buttava in faccia come una colpa il lavoro. Eppure da qualche parte dentro di lei si conservava intatto una specie di carità, quella carità che dovrebbe esistere per il solo motivo che siamo esseri costretti a condividere la stessa sorte… Ma ora lui l’aveva lasciata e lei era sola, sola a vivere il suo Natale.
Restava sempre casa sua, l’ultima spiaggia! E lì ci aveva concentrato tutto il bene del mondo, volutamente, capendo inconsciamente che questo era l’unico modo per resistere al dolore che le martellava dentro. A quell’idea si aggrappava con ostinazione, come la richiesta di un miracolo all’assurdo dell’esistenza.
E ci arriva a casa, ma trova poco delle sue speranze. Sguardo sperso, quasi meravigliato. È tutto diverso: dietro casa al posto dei prati, una lunga fila di casette a schiera, la famiglia di fronte sparita, le amiche partite per la città, e i suoi sempre più piegati dal tempo, sì sì grati alla sorte per aver ancora a casa la figlia, ma troppo stanchi per esultare nella gioia dell’abbraccio e per riempire il suo vuoto.
Tutto le sembra strano, quasi intorpidito lo spazio intorno: no, quella non era più casa sua, era l’ombra d’ un vissuto, il vuoto del presente… Quel Natale sarebbe stato senza magia, ma, del resto, da tanto non viveva l’incantesimo dell’attesa: nella grande città in cui viveva, travolta dalle luci e dal traffico, presa dal produrre lavorativo, aveva perso insieme al ritmo delle stagioni anche il ritmo degli eventi che avevano segnato la sua vita. La ritualità capace di scandire la vita persa!
Ora a casa sua si sentiva straniera: un po’ di chiacchere, l’eccitazione del momento, il racconto di quello che si può dire, e poi il tempo si dilata. Cosa fare? Arriva improvviso l’invito della cara zia Mariarosa, quella sempre presente in ogni avvenimento d’infanzia, quella che preparava la sorpresa ai nipoti lavorando di sera, come quella volta che aveva vestito di tutto punto il suo bambolotto, bello sì, ma senza vestiti: lavoro a macchina tutta la sera e al mattino la sorpresa. Ciccio vestito alla grande con un morbido tessuto arabescato, e allora le stoffe non era facile averle come ora… Lo stupore insieme all’eccitata gaiezza della sorpresa era ancora vivo sulla sua pelle.
-Andiamo a messa in montagna a Campotamaso? Bastano venti minuti per arrivare nel paese dove è nata la nonna. E poi, dopo messa, tutti a casa del prete per bere la cioccolata…
-A casa dal prete? Ma che roba…Ma sì, tanto che cambia? Basta stare con qualcuno!
-Sì, la sua canonica è la casa di tutti
-Quanto dura? Non voglio messe lunghe. È da una vita che non entro in una chiesa e che non prego…
- Dura come sempre. Cosa vuoi, una messa speciale tutta per te? Se vieni….
La rustica essenzialità della montagana.
- Vengo, mi prendo cappotto e sciarpa. Arrivo
Dieci minuti di salita, tra ripensamenti ironici: “Ma chi me l’ha fatto fare!” ed infine ecco il paese che conosceva bene apparire dalle curve. Dieci case abbarbicate in modo disordinato sulla salita, strade silenziose segnate dalla ghiaia, che nella notte brilla di tenue luce, appena visibile, un’ ultima salita stretta segnata ai lati da viti stecchite che nella notte gettano un’ombra sinistra soprattutto nei nodi che ne segnano il tempo, e sullo spiazzo in alto la chiesa solitaria che sembra abbracciare le valli. Eccolo il sagrato: nessuno.
Già c’è silenzio intorno. Tutti dentro, sono in ritardo. S’apre la porta sul calore di stufa avvinghiato alle anime dentro stipate, dalla faccia felice e misteriosa. C’è aria solenne: il prete dai capelli bianchi è vestito con i paramenti liturgici della festa. Sull’alba di colore bianco candido, la stola ricamata in rosso bordata d’oro e di gigli. Di seta la pianeta con i galloni realizzati in seta giallo rosa decorati con trattini verdi obliqui su fondo giallo, una rete di maglie chiuse formata dall’intrecciarsi con tulipani per ogni lato, con una corona ricamata nei punti di tangenza. Alla faccia dei tessuti moderni, lineari dall’alto design…Forse….
I colori della memoria dilagano dentro: i simboli nascosti riaffiorano nell’universalità del rito. Il rosso straripa ovunque insieme al candido bianco dei bucaneve che i ragazzi della parrocchia hanno raccolto su per la montagna come lei faceva da piccola, forse provando la sua stessa meraviglia: come facevano quei fiori a resistere al freddo? Era un miracolo quel loro erigersi sullo stelo indurito, con i loro petali turgidi tra il verde intenso delle foglie, sbucato tra il bianco della neve. Quanto rosso e quante candele sull’altare: il fumo mescolato all’incenso dei turiboli ondeggia piano perché alcuni ridenti chierichetti dalla testa rapata fanno dondolare quasi per gioco le catenelle del recipiente, come se fossero onde sul mare. Onde di colori e canti dei cori in cui tutte le voci, seppur stonate, vivono di intensa armonia.
Lei guarda la gente intorno e piano si sente pervadere da una pace strana: la signora accanto col velo sulla testa distende sul viso la serenità della fede ed il sorriso che le rivolge le appare da sempre conosciuto. Sembra raccontarle i suoi dolori dicendo:
-Sì, anch’io i miei dolori, ma ora è Natale e vivo il mistero del nascere…
Ecco suona ora una zampogna, tutti si girano verso la porta: entrano, tra uno spazio che si apre come per incanto, la Madonna dalle guance paffute, una bellezza tenera e pulita di montagna, con un sorriso di beatitudine stranita, Giuseppe col lungo bastone, dalla faccia un po’ rude con la barba lunga, aria grave, responsabile, di membro dell’Arcadia da montagna; e dietro loro alcuni pastori, dalle gote rosse, tipico star bene della montagna sferzata dal vento, che portano sulle spalle pelli morbide e arricciate di capra. Camminano lenti, tra un passo e l’altro i misteri del mondo portati con semplice naturalezza e tutti avanti fin davanti alla capanna grande, davanti all’altare, dove steso sulla paglia sembra sorridere il Bambinello, giù in ginocchio nel gesto umile più semplice del mondo: gesto che piega e che sa portare al cielo. Insieme alla preghiera che sgorga profumando di pace. Il tutto naturale nella gaiezza delle feste e nelle parole del prete che per quell’occasione sono davvero speciali. È sull’altare e si agita nell’accorato richiamare all’amore: quello vero, essenziale, esistenziale.
Un colpo nel cuore di quella figlia delusa dalla vita, tornata a casa, amareggiata dai prati spariti dietro casa e dal non trovare più il mondo dei suoi antichi affetti: una coltre di tenerezza le si stende dentro, fin giù nell’animo fondo sciolto nella semplicità della visione. Stempera la dolcezza ogni dolore ed il passato tutto, disteso nella presente quiete, dilava ogni amarezza, portando all’antica trasparenza i pensieri e le speranze. La giovinezza, le fantasie, i sogni, le delusioni, la vita lì ora raccolta tutta nelle mani, stesa nel divino accettare la vita, di fronte al mistero del nascere.
E poi il segno della pace: ognuno un sorriso, ognuno una stretta, ognuno una stilla di sé in un abbraccio universale. E poi tutti fuori al suono delle campane nel buio fondo della notte e sul sagrato il riscaldare delle parole l’uno all’altro rivolte. E poi piano un grido di sorpresa. La neve cade silenziosa, bianca, pura dal cielo, velando di bianco e ovattato arcano la notte e il mistero di pace che dentro l’animo di quella donna s’era compiuto.
Rosanna Cracco
L’ANGOLO LETTERARIO DEI SOCI
Racconti e poesie
Rosanna Cracco